Oggi si apre il simposio annuale dei banchieri centrali a Jackson Hole, formalmente dedicato alle dinamiche del mondo del lavoro ma da tutti atteso principalmente per capire quale sarà la guidance che la Fed deciderà rispetto all’aumento dei tassi di interesse. A caricar di contenuti l’incontro, però, ci saranno anche alcuni dati poco confortanti emersi proprio ieri riguardo la diminuzione netta dell’incisività del programma di Quantitative easing, quasi un monito a chiudere il capitolo per aprirne un altro. Come dimostra il primo grafico a fondo pagina, ogni dollaro aggiunto nel sistema dal Qe della Fed, corrisponde a soli 4 dollari di capitalizzazione del mercato nell’indice S&P 500 di Wall Street, contro i precedenti 12. Ma a far pensare ancora di più è il dato sull’occupazione, visto che oggi ci vogliono 37.400 dollari del Qe per creare un solo posto di lavoro in più negli Usa, 5 volte la cifra necessaria prima del crollo di Lehman Brothers, come ci mostra il secono grafico.
Ora, al netto del fatto che, come vi ho spiegato ieri, la Fed non può permettersi di dare avvio a un “taper” definitivo seguito da un troppo rapido aumento dei tassi, la questione occupazionale è quanto mai attuale e non solo negli Usa. Anzi, l’Europa pare davvero un laboratorio in tal senso. Da qualche giorno, l’altra sera anche a La7 per bocca del bravo giornalista di Repubblica, Federico Fubini, sento dire che persino la disastrata Grecia cresce più dell’Italia e che la Spagna, grazie alle draconiane riforme nel mondo del lavoro, è ormai un esempio da seguire. Insomma, viva la troika e le sue ricette.
Proprio sicuri? Diamo un’occhiata a come stanno davvero le cose, tanto per essere preparati alle ricette che ci verranno imposte in autunno, quando anche per l’Italia arriverà il redde rationem. In Grecia, a causa della crisi economica che ha portato il tasso di disoccupazione a un picco record del 27,6% a maggio, oltre un milione di persone continua a lavorare senza ricevere lo stipendio pur di non perdere il posto. A scoprirlo è stato l’Ispettorato del lavoro dell’Ika (il maggiore istituto di previdenza sociale greco), secondo cui nel settore privato, su un totale di 1.800.000 dipendenti, solo 700mila ricevono lo stipendio, oltretutto ridotto. Nel rapporto dell’Ika non si precisa se le aziende, ritardando il versamento degli stipendi o non pagandoli affatto, stiano approfittando della crisi economica, né viene indicato cosa si dovrebbe fare per evitare queste evidenti violazioni della normativa sul lavoro, ma si sa che i ritardi nel pagamento degli stipendi vanno da un minimo di tre a un massimo di 12 mesi e che ci sono anche lavoratori che ormai temono di non essere mai più pagati e che il governo non farà nulla per difendere i loro diritti.
Dai dati dell’Ika risulta inoltre che quest’anno un milione di lavoratori greci si sono visti rifiutare dalle aziende il pagamento delle ferie e che, nonostante le norme in vigore e le multe che molto raramente vengono inflitte ai datori di lavoro disonesti, i reclami da parte dei dipendenti sono piuttosto rari perché temono di essere licenziati e perché alle compagnie costa molto meno pagare le multe che gli stipendi degli impiegati. Gran bel modello di ripresa, non c’è che dire: ricorda un po’ i servi della gleba, però garantisce quello zero virgola di Pil in più che fa tanto felici Ocse e Fmi.
E la Spagna dei miracoli? Più o meno lo stesso, visto che anche nella penisola iberica la tanto propagandata produttività del lavoratore, dopo gli studi di economisti indipendenti, è risultata essere nient’altro che il frutto avvelenato di centinaia di milioni di ore di lavoro straordinario non pagato. Si è anche scoperto che l’aumento degli occupati (quelli del “miracolo spagnolo” che ci ossessiona a ogni piè sospinto e fa tanto eccitare Confindustria e gli Alesina-Giavazzi di turno) altro non era che l’aumento dei contratti part-time con riduzione del salario e delle ore lavorate per i lavoratori assunti. Ma come vi dicevo, l’importante è fare i compiti e guadagnarsi la pacca sulla spalla dei regolatori, ovvero gli stessi che hanno completamente sbagliato le previsioni di crescita per il 2014 ma ancora si ostinano a voler offrire – anzi, imporre – le loro ricette.
Stando ai dati del Fmi, la Spagna è infatti uno dei Paesi a maggior ritmo di crescita tra i malati d’Europa, con il suo invidiabile 1,2%, contro le stime che ottimisticamente parlavano dello 0,6%, mentre l’Italia è condannata a un Pil in calo dello 0,2%, il peggior dato dal 2000. Insomma, Matteo Renzi non deve fare altro che copiare le ricette di Mariano Rajoy e il gioco è fatto: più schiavi sottopagati ma con un bello zero virgola in più, di fatto bruciato dalla deflazione che aumenta la ratio di crescita del debito pubblico ma questo i soloni del rigore non lo sanno, quell’esame all’università non l’hanno dato.
Peccato che qualcuno, invece, l’esame in questione lo abbia dato, prendendo anche un rotondo 30 e lode. Si tratta di Roberto Centeno, professore di Economia alla Universidad Complutense di Madrid e firma prestigiosa del quotidiano El Confidencial, il quale – partendo dalla considerazione che un tasso del 25% di senza lavoro non è accettabile in una nazione cosiddetta sviluppata – ha svelato il trucco utilizzato dal premier per contare i disoccupati: «Il metodo considera che si crea un nuovo posto di lavoro se si perde un posto di lavoro di 40 ore e se ne creano due di 10 ore. E allora dicono che la situazione è migliorata, quando è esattamente l’opposto». In questo modo sono stati prodotti ufficialmente 402.400 posti di lavoro ma in realtà sono solo 61mila, «se le cifre vengono destagionalizzate e si correggono le bugie sulla popolazione attiva», denuncia Centeno. Il quale aggiunge: «Il numero di ore totali di lavoro è sceso di 3,8 milioni, cosa che, insieme alla precarietà e ai salari da miseria, sta portando la Spagna verso il Terzo Mondo, verso una società duale: un’élite sempre più ricca, una burocrazia gigantesca di raccomandati dipendenti del regime e la maggior parte della popolazione impoverita e indebitata».
Oggi, nella Spagna dei miracoli, ci sono 2,5 milioni di persone senza alcuna speranza di tornare al mercato del lavoro, mentre i neo-occupati, figli legittimi della precarietà, hanno salari intorno ai 500 euro e un laureato su tre esercita un lavoro per il quale non è necessario alcun titolo: «L’impressione è che la deriva del mercato del lavoro in Africa, inizi dai Pirenei», conclude Centano. Ancora oggi il tasso di disoccupazione iberico è al 24,9%, mentre quello giovanile è al 53,9% e supera il 70% in alcune regioni meridionali: in pratica 8 spagnoli su 10 (di età tra i 18 e i 24 anni) sono senza lavoro.
Bel miracolo, non vi pare? È questa la società in cui volete vivere e che vivano i vostri figli e nipoti? Ma la questione è un’altra: questi dati, garantiti da riforme folli ed eserciti di schiavi o morti di fame senza lavoro, è funzionale a ciò che interessa a chi governa e tira i fili: ovvero, il movimento di contrazione dei rendimenti dei titoli di Stato, con il decennale iberico che ormai flirta con lo yield del pari durata statunitense. L’altra mattina l’asta iberica dei titoli a breve ha registrato un nuovo importante calo dei rendimenti, con le Letras a 1 anno che hanno visto scendere il tasso allo 0,160% dallo 0,294% del collocamento precedente, mentre i titoli a sei mesi allo 0,080% dallo 0,146% precedente: Madrid ha collocato complessivamente 4,54 miliardi di titoli, il massimo importo indicato. Ma non solo.
Sempre ieri la notizia che il fondo sovrano norvegese nel secondo trimestre ha incrementato la sua esposizione sui titoli di Stato italiani – passata a 43,698 miliardi di corone norvegesi (circa 5,3 miliardi di euro) alla fine del secondo trimestre dai 38,218 miliardi del primo trimestre – ha spedito il nostro spread al minimo di 156 punti base, mentre sul primario la Germania che ha collocato in asta titoli a due anni con scadenza settembre 2016, i cosiddetti Schatz, per 4,042 miliardi di euro con un rendimento pari a zero (precedente 0,01%) e richieste che sono state il doppio dell’importo offerto, per un totale di 8,227 miliardi.
E il Portogallo, Paese alle prese con una crisi bancaria che rischia di terremotare l’intero sistema e le previsioni di crescita? Lisbona ha collocato in asta titoli a 3 e 12 mesi per un miliardo di euro, i primi per un importo di 800 milioni allo 0,216%, il più basso registrato da titoli di tale scadenza dalla creazione dell’euro (nell’ultima asta di titoli analoghi il tasso era stato dello 0,453%) e con domanda pari a 1,79 volte l’offerta. Mentre i trimestrali, in asta per 200 milioni di euro, sono stati piazzati a un tasso dello 0,097% contro un tasso dello 0,18% realizzato a metà giugno e domanda a pari a 3,35 volte l’offerta.
Si festeggia, la Borsa sale, i governanti gongolano e i regolatori applaudono. Per quanto la gente accetterà la schiavitù moderna in nome dello spread, però, non è dato a sapersi. Attenti all’autunno, oggi i mercati sono benevoli perché in debito con le varie banche centrali e perché spingono a favore di riforme su ampia scala che garantiscano loro mercati del lavoro omogenei e deregolamentati a uso e consumo del profitto finanziario, poi – una volta ottenute o delusi dal loro fallimento – potrebbero (anzi, lo faranno di certo) passare e in fretta all’incasso. E un hedge fund, così come una grande banca d’affari, può scaricare titoli con la stessa fretta e medesimo volume di come li ha acquistati. Ci siamo già passati.