La montagna del timore ha partorito il topolino della normalità. Nonostante la vittoria netta e l’accordo di governo lampo addirittura con un partito anti-austerity di destra (non avendo ottenuto la maggioranza assoluta in Parlamento per soli due seggi), lo spettro di Syriza pare abbia smesso di aleggiare sull’Europa e sia planato placido nella realtà politica del Continente, lasciando pressoché indifferenti mercati – tutti in rialzo, tranne Atene – e spread dell’eurozona. Insomma, chi si attendeva crolli biblici, impennate dei differenziali e fughe dall’euro con il franco svizzero e l’oro a livelli stratosferici è stato smentito.
Due le ragioni, a mio modo di vedere: o l’atteggiamento da duro di Alexis Tsipras verso i creditori internazionali sulla rinegoziazione del debito è nient’altro che un bluff già scoperto da Commissione Ue, Bce e Fmi, oppure questi stessi soggetti hanno già prezzato un addio di Atene all’euro, di fatto offrendo il loro benestare all’ipotesi visto che di sistemico ormai la Grecia ha poco e che il prezzo più alto lo pagherebbe l’Eurotower e le istituzioni comunitarie, principali detentrici di debito ellenico ma non le banche o tantomeno il sistema Target2, quello che preoccupa la Germania perché vede sovraesposta la Bundesbank (e il quale invece già oggi prezza tensioni su Italia e Spagna).
Insomma, Tsipras non fa paura a nessuno, se non ai greci stessi. Già, perché alcune criticità ci sono eccome, ma neppure stimatissime banche d’affari sembrano coglierle – o volerle cogliere, per essere più precisi -, tanto che Ubs resta overweight sul Paese, con più cautela sulle banche, mentre Credit Suisse vede un lieto fine dell’intera vicenda proprio grazie al Qe. A detta di Ubs, oltre alla sottoperformance dell’indice in Borsa (che di fatto crea opportunità di acquisto a basso costo), ci sono diversi argomenti a sostegno di uno scenario rialzista per l’equity ellenico tra cui l’outlook sulla ripresa economica del Paese, il surplus primario, la valutazione degli utili societari e la debolezza della moneta unica: balle e ve lo spiegherò tra poco, ma non cambia la storia in sé, ovvero Atene non spaventa gli altri ma solo se stessa.
In primis, perché se Syriza, coerentemente con il programma elettorale, prendesse davvero in considerazione una qualche forma di ristrutturazione del debito privato (in particolare dei mutui residenziali) con lo scopo di alleviare la pressione fiscale sulle famiglie, uno scenario simile renderebbe necessari ulteriori accantonamenti per il settore bancario che potrebbero erodere la base di capitale. Ma anche in questo caso, il mercato prezza il fatto che le minacce di Tsipras resteranno tali, almeno per ora. Quanto ai bond greci di lungo termine, i titoli viaggiano il 13% al di sotto della mediana dello scorso marzo-settembre, incorporando nei prezzi un aumento del rischio di default tra il 13% e il 26%, a seconda delle ipotesi sul valore di recupero in caso di insolvenza: per Ubs tale rapporto è buono, soprattutto se si considera una probabilità di uscita dall’euro ampiamente inferiore al 5% e il rischio di inadempienza per le obbligazioni in mano agli investitori privati è dunque marginale. A detta degli analisti di Credit Suisse, poi, ci sarà comunque «un lieto fine in quanto il Quantitative easing della Bce contribuirà a stabilizzare le attese di inflazione nei 19 paesi, fornendo un ulteriore incentivo alla Grecia per cercare un accordo con la Bce, la Commissione europea e il Fmi».
Fin qui la cronaca, ora passiamo ai numeri, alla “ciccia” come direbbero in Toscana. Guardate questo grafico: ci mostra l’andamento della Borsa di Atene e del decennale ellenico ieri e come vedete non rispecchia affatto le dinamiche di tutti gli altri mercati europei. Anzi, i titoli azionari hanno visto un crollo salvo risalire grazie agli acquisti dei cosiddetti “dip-buyers” – quelli che comprano durante i cali – ma poco dopo il corso della Borsa di Atene è tornato a scendere in linea con il prezzo dell’obbligazione sovrana. Cosa significa?
Due cose, essenzialmente: primo, il mercato greco ormai trada per i fatti suoi rispetto agli altri d’Europa, visto sia la dinamica di ieri, sia il fatto che un governo di estrema sinistra ed euroscettico – il quale vuole ridiscutere sia il debito che le politiche di austerity – che sia allea per governare con una formazione anti-europeista addirittura di destra fino alla settimana scorsa avrebbe fatto crollare tutte le piazze del Continente, mentre ieri no. Quindi, a mio avviso tutti hanno già prezzato il “Grexit”, l’uscita di Atene dall’euro. Secondo, quel calo dei corsi azionari greci deve preoccupare, perché significa che l’aspettativa benefica del Qe per le banche elleniche tanto sbandierata dalle banche d’affari nei loro report è già svanita, incapace di sostenere un rally oltretutto creato da “dip-buyers”, gente che oggi ha provato con Atene e domani magari si lancia su Brasile o Australia. Bisogna guardare in faccia la realtà signori miei e i suoi numeri: l’economia greca è crollata del 25% dal suo picco pre-crisi a metà del 2008, il tasso di disoccupazione è del 25,8%, ovvero stando a dati dello scorso ottobre 1,2 milioni di persone sono senza lavoro.
E ancora, la Grecia è al terzo posto nella classifica europea per i paesi a maggior rischio di povertà ed esclusione sociale, stando a dati Eurostat, i quali confermano anche che il 23,1% dei greci nel 2013 era a rischio povertà. Stando alla Banca centrale greca, le sofferenze bancarie solo a 33,5% del totale dei prestiti erogati, per un controvalore di 77 miliardi di euro, mentre gli outflows di capitali patiti dalle banche greche negli ultimi cinque anni è di circa 70 miliardi di euro e il mercato azionario è crollato dell’83,9% dal 2008 a oggi. Ma non basta, stando a dati della Confederazione greca delle piccole e medie imprese, Gsevee, un’azienda su quattro ha chiuso dal 2008 a oggi, per un totale di 230mila fallimenti, mentre il ministero del Bilancio certifica che nel 2014 i lavoratori autonomi hanno visto aumentare l’imposizione fiscale di nove volte rispetto al 2009, mentre quella dei lavoratori dipendenti è cresciuta di sette volte rispetto a sei anni fa. Inoltre, l’Iva in Grecia è al 23% contro una media del 21,5% nell’eurozona e del 20,5% nell’Ue e, per finire in bellezza, sono oltre 100mila gli scienziati greci che oggi lavorano all’estero, stando a dati del Dipartimento di Economia dell’Università della Macedonia citati dal Wall Street Journal.
Ecco il Paese che si troverà a governare il buon Alexis Tsipras, affiancato come ministro delle Finanze da Yanis Varoufakis, il quale intervistato a Bruxelles da Paul Mason per Channel4 nel corso della campagna elettorale aveva annunciato che con Syriza al potere «distruggeremo il sistema oligarchico greco». Accidenti, roba da pelle d’oca per i facilmente impressionabili ma non per i mercati, i quali guardano ad altro. E fanno bene, perché il distruttore di oligarchi, prima di portare a termine la sua epica battaglia in favore degli oppressi, dovrà mettere mano a conti pubblici, questi sì, capaci di far impallidire dal terrore anche Rambo.
A differenza di quanto detto da Ubs, infatti, il budget statale greco sta già oggi patendo perdite per oltre 1 miliardo di euro nel primo mese dell’anno, quindi il nuovo governo – al netto degli oligarchi da cacciare – dovrà subito dare risposte per quanto riguarda i propri obblighi finanziari, prima fra tutti la copertura dei requisiti di liquidità e sui prestiti, oltre che il ritorno alla normalità per l’amministrazione fiscale, visto che di fatto i greci da fine 2014 hanno smesso di pagare le tasse. E sarà un po’ dura per il cacciatore di oligarchi andare a battere i pugni sul tavolo dei partner europei e del Fmi con dati fiscali di questo genere, molto peggio di quelli mostrati solo un mese fa alla troika (non c’è niente da fare, questo vizietto i politici greci non lo perderanno mai). Ad esempio, il mitologico avanzo primario è già stato visto al ribasso all’1,5% del Pil dall’1,8% che però era già stato introitato nei calcoli del budget per quest’anno. Inoltre, questo stando a dati del General Accounting Office, al mancato introito fiscale di oltre 1 miliardo di euro previsto per questo mese va aggiunto quello del 2014 pari a 1,3 miliardi di euro, quindi con un gap fiscale sulla tassazione di 2,3 miliardi di euro: il tutto in uno scenario che per l’anno appena iniziato prevedeva un surplus di budget primario pari al 3% del Pil, roba che nemmeno un ubriaco…
Ora, con numeri simili non solo ci sarà poco da fare i galletti sia con i partner Ue, sia con gli oligarchi da abbattere, ma vorrei proprio sapere come Tsipras e il buon Varoufakis potranno tenere fede alle promesse fatte in campagna elettorale rispetto all’eliminazione di alcuni balzelli, come ad esempio quello sua proprietà (Enfia), che il governo precedente aveva già messo a bilancio per il budget del 2015. Insomma, legge finanziaria da riscrivere con nuovi numeri, temo anch’essi molto ispirati alla finanza creativa del buon Fausto Tonna, come d’altronde quelli dell’esecutivo guidato da Samaras. In compenso, ci sono altri numeri che di creativo non hanno proprio nulla, sono lì, incisi su pietra, a dimostrazione che Tsipras non fa paura ai mercati – i quali già prezzano il fatto che fallirà – ma ne fa molta ai cittadini greci.
Stando a dati diffusi domenica sera da JP Morgan, infatti, nella settimana precedente al voto di domenica dalle banche greche sono stati ritirati nientemeno che 8 miliardi di euro, più di tutti gli outflows di dicembre e del resto del mese di gennaio insieme! Il tutto in un quadro da mani nei capelli per le banche greche, con l’Istituto centrale del Paese che nel mese di dicembre ha visto espandersi significativamente lo stato patrimoniale, avendo preso in prestito dalla Bce 11 miliardi di euro e portando il totale a 57 miliardi. Peccato che nello stesso mese gli outflows furono di “soli” 3 miliardi di euro, quindi i dati di gennaio ci parleranno di ulteriore denaro in arrivo da Francoforte non solo per tamponare le fughe di capitali, ma anche per ridurre l’accesso della Grecia ai mercati repo, come accade prima e durante la prima crisi. Certo, in dicembre le banche greche hanno preso in prestito solo 1 miliardo tramite il fondo di emergenza Ela e, stando al collaterale posto a garanzia di 23 miliardi, anche calcolando un haircut del 50% sui credit claims, in gennaio potranno ottenere almeno altri 10 miliardi, ma si tratta sempre di metadone e a tassi che non sono certo quelli della Bce. Tanto più che l’acquisto di fondi monetari offshore, leggi lussemburghesi garantiti dal buon Juncker, la scorsa settimana è salito alle stelle, con un totale di 206 milioni di euro tra lunedì e giovedì comparati ai soli 91 milioni della settimana tra il 9 e il 16 gennaio, i 54 della settimana tra il 2 e il 9 gennaio e i 107 totali per l’intero mese di dicembre. Insomma, se la cifra di 3 miliardi di outflows di depositi per il mese di dicembre è reale e quegli acquisti su mercati offshore rappresentano un buon proxy per le fughe di capitali, dobbiamo aspettarci che gli outflows di depositi saranno attorno ai 4 miliardi per le prime due settimane di gennaio più gli 8 miliardi della sola scorsa settimana.
E dove finiscono quei soldi, se non vanno in Lussemburgo o Svizzera? Nei materassi, come ci conferma il grafico a fondo pagina: la quantità di banconote messa in circolazione dalla Banca di Grecia è infatti aumentata significativamente, +2,2 miliardi di euro in dicembre, dato che ci suggerisce come più del 70% dei prelevamenti dai conti greci finisca proprio nei materassi e come dei 27 miliardi in contanti usciti dai conti correnti dalla fine del 2009 a metà del 2012 solo la metà sia rientrata nel sistema bancario. Ma il fenomeno vuole abbattere gli oligarchi… Forse, prima, sarebbe meglio che facesse un bell’esamino di coscienza insieme al suo amico Tsipras e prendesse atto di questi altri dati riguardanti il suo Paese. Stando a cifre dell’ultimo World Economic Forum, la Grecia è 81ma nel ranking globale per la competitività; 77ma per indipendenza della giustizia, dopo lo Zambia; 81ma per la malversazione di fondi pubblici, dopo l’Armenia; 82ma per il diritto sulla proprietà, dopo il Gabon; 99ma per quanto riguarda il comportamento etico delle aziende, dopo l’Ucraina; alla posizione 109 per il favoritismo politico, leggi clientelismo, dopo il Brasile; 120ma per quanto riguarda la trasparenza dell’attività politica, dopo l’Ungheria; 126ma per l’efficienza della strutture legali nei casi di disputa, dopo Myanmar; 131ma per lo spreco di spesa governativa, dopo l’Egitto e 136ma per il peso delle regolamentazioni statali, dopo il Kuwait.
Ora, come sapete a me la troika non sta certo simpatica e nemmeno l’Ue così com’è ma forse i greci dovrebbero anche fare un bel mea culpa se sono conciati in questa maniera, voi cosa ne dite? Diversa è la questione riguardo le ricette utilizzate per “salvare” il Paese dopo la crisi, ma anche qui il problema risale a monte, ovvero ai primi anni dell’euro e allo sviluppo delle dinamiche monetarie all’interno dell’Unione, un qualcosa che vale anche per noi e per tutta la “periferia” e che fa dire a molti come l’euro sia solo il vecchio marco tedesco con un altro nome. Se oggi i greci sono più indebitati (ratio debito/Pil al 180%, 20% in più dai livelli post-ristrutturazione del 2012) e se dei 254 miliardi di fondi forniti al Paese da Ue e Fmi solo l’11% è stato usato per finalità non finanziarie, ovvero l’economia reale (oltre la metà è stato utilizzato per il servizio del debito e un altro 19% per ricapitalizzare le banche) è certo colpa degli errori dei governi ellenici precedenti e anche del programma di austerity-salvataggio, ma la radice del male sta nell’eccessivo apprezzamento del tasso di cambio reale per i Paesi della “periferia” dell’eurozona fin dalla creazione della moneta unica, il prodromo della crisi dei debiti sovrani del 2010-2011. Vediamo di partire da principio.
Il tasso reale effettivo di cambio è una media ponderata della valuta di un Paese nei confronti di un indice o paniere di altre maggiori monete al netto degli effetti dell’inflazione: se questo si apprezza, i beni e servizi dei quella nazione diventano più cari sui mercati internazionali e, quindi, per evitare di perdere quote di mercato si può cercare di svalutare la propria moneta per operare l’offsetting sul differenziale più alto dell’inflazione domestica. Parlando dell’eurozona, però, sono solo i differenziali dei livelli di prezzo a interessare, visto che la valuta nominale è la stessa tra tutti i partner commerciali: in parole povere, per migliorare la propria competitività, ogni Stato membro non può ottenere alcun aiuto dal tasso di cambio ma solo dall’abbassamento dei costi. Qual è quindi il problema greco, il “G-factor”? Semplicemente, una critica caratteristica dell’economia greca è stata enormemente sottovalutata. Guardate il primo grafico a fondo pagina, ci mostra l’evoluzione del tasso reale effettivo di cambio in un gruppo di nazioni dell’eurozona a partire dal 2000. Fino al 2009, la Grecia era seconda solo all’Italia – ebbene sì, ora capite tante cose vero? – per livello di apprezzamento del tasso reale effettivo di cambio, una sopravvalutazione particolarmente netta soprattutto nei confronti della Germania – ma guarda un po’ -, la quale invece durante quel periodo era in modalità deflattiva sul cambio, a tutto beneficio dell’export.
Questa dinamica ha lasciato la Grecia in una posizione di non competitività totale e sempre più dipendente dal credito estero, quando però nel 2010 i creditori internazionali hanno chiuso i rubinetti, boom! A quel punto il governo greco doveva trovare un modo rapido per recuperare competitività, cioè ricorrere a una svalutazione competitiva attraverso l’abbassamento spietato di costi e salari, uno shock brutale per l’economia greca e la vita dei cittadini, visto che in pochi anni quel tasso reale effettivo di cambio era tornato a livelli tedeschi! Il tutto mentre gli altri membri della cosiddetta “periferia” diedero vita a un’inversione del processo di aggiustamento dopo la crisi (e temo che in un futuro non troppo lontano ne pagheranno i costi, noi per primi). Bene, quel meccanismo di aggiustamento imposto a un’economia come quella greca ha dato vita alla macelleria sociale che oggi vediamo in mille reportage: se infatti in un Paese vige un criterio di redistribuzione abbastanza valido, anche un taglio del 20% permette di campare, pur facendo sacrifici. Ma in un Paese dove pochi guadagnano molto e la maggioranza poco come la Grecia, tagliare il 20% per pochi non ha impatto troppo negativo, ma per molti diventa la linea di demarcazione tra vivere e sopravvivere a malapena.
Insomma, con queste caratteristiche – che non sarà certo Tsipras, né il suo amico caccia-oligarchi a poter cambiare con la bacchetta magica e dentro il recinto dell’eurozona – la Grecia non è in grado di reggere a un periodo di prolungata deflazione come quello che abbiamo davanti, per ammissione dello stesso Mario Draghi, senza un aiuto da una propria valuta nazionale svalutabile. È puro buon senso economico ed è ciò che i mercati stanno prezzando: Atene se ne andrà dall’euro e le istituzioni europee lo sanno benissimo. Ma anche qualcun altro minaccia di innescare un “credit event” su Atene: Standard & Poor’s potrebbe tagliare il rating sovrano della Grecia prima della data fissata per il prossimo pronunciamento sul merito di credito ellenico, ovvero il 13 marzo, se la situazione dovesse prendere una piega negativa. È quanto ha riferito ieri all’agenzia Reuters il responsabile dei rating sovrani europei di Standard & Poor’s, Frank Gill, il quale ha affermato che «la data fissata per la revisione del rating è il 13 marzo, ma potremmo deviare da quella data qualora avvertissimo che è successo qualcosa di eccezionale con conseguenze importanti sul merito di credito dello Stato».
Dopo il monito di S&P’s la Borsa di Atene chiudeva a -3,20%, comunque al di sopra del minimo intraday di oltre -5%, mentre il rendimento del decennale ellenico trattava all’8,87%, il quinquennale al 10,15% e il triennale all’11,764%, in piena inversione dei rendimenti, sintomo di tensione sul breve periodo per la tenuta dei conti del Paese. Ma come vi dicevo prima, nessun contagio verso gli altri bond periferici, visto che Italia, Spagna e Portogallo hanno visto gli spread a ridosso dei minimi storici: Atene, ormai, sembra tradare per conto suo. Guarda caso, poi, ieri il franco svizzero è crollato ai minimi rispetto all’euro da quando è stato tolto il peg fisso, come ci mostra questo grafico, un balzo del +2,70% in un solo giorno di trading, il più grosso calo giornaliero dal 6 settembre del 2011. Forse a Zurigo sanno che Atene dirà “ciao ciao” e temendo un diluvio di euro in arrivo – visto il livello degli outflows di capitale già in atto ora – hanno rimesso all’opera la Banca centrale svizzera, intenta a comprare euro con il badile ieri per deprezzare il franco, magari in attesa di tornare al peg fisso? Altro che rivoluzione greca…