Migliorano i conti economici delle amministrazioni pubbliche. Nel secondo trimestre 2015 l’indebitamento netto in rapporto al Pil è stato dello 0,9%, inferiore dello 0,2% rispetto al secondo trimestre 2014. Crescono sia le uscite totali (+0,3%) sia le entrate totali (+0,7%). Il M5S lancia però l’allarme per le clausole di salvaguardia, che sarebbero di oltre 70 miliardi fino al 2019. Per i pentastellati, “Palazzo Chigi e Mef si stanno concentrando sul 2016 come fosse l’ultimo anno della storia dell’uomo”. Nel frattempo l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) ha rivisto al ribasso le previsioni sugli scambi per il 2015, passando dal 3,3% al 2,8%. Ne abbiamo parlato con Francesco Daveri, professore di Scenari economici all’Università Cattolica di Piacenza.



Ritiene che il miglioramento dei conti pubblici possa aiutare Renzi a ottenere una maggiore flessibilità in sede Ue?

Bisogna prendere con le pinze i dati trimestrali di finanza pubblica. Le entrate continuano ad andare piuttosto bene, ma anche la spesa pubblica aumenta. Questo non influenza però più di tanto il negoziato che dobbiamo fare con l’Europa. È più rilevante ciò che il governo intende fare con la legge di stabilità 2016. Non credo che i negoziati che avvengono a Bruxelles siano in funzione di come sono andati gli ultimi trimestri.

Perché le uscite continuano ad aumentare?

Perché la spesa per le pensioni e per la sanità continuano a essere in aumento. Dalla nota di aggiornamento al Def 2015 emerge che a legislazione vigente la spesa pubblica è data in aumento di 40 miliardi da qui al 2019. Quindi con il termine spending review ci si riferisce a una revisione della spesa in senso restrittivo, ma a fronte di un andamento tendenziale che a legislazione vigente prevede 40 miliardi in più di spesa pubblica di qui al 2019.

Come si compone questo aumento di spesa?

Deriva per 9 miliardi dalla spesa sanitaria e per 26 miliardi da quella per le pensioni. La spesa per le pensioni è in aumento in modo tendenziale, e se a ciò si aggiunge la spesa sanitaria il totale è di 34 miliardi su 40. Il resto viene dall’aumento delle altre prestazioni sociali, che passano da 71 a 83 miliardi.

La Wto ha rivisto al ribasso le stime per il commercio. Ciò può avere ricadute sul Pil italiano?

Può avere ricadute in quanto una voce importante che ha contribuito positivamente alla crescita del Pil negli ultimi anni sono state le esportazioni. Il rallentamento registrato dalla Wto di per sé è marginale. Il dato importante è che prima della crisi il commercio cresceva del 10% l’anno, e ora abbiamo cifre ben al di sotto del 5%.

Questo rallentamento può fare saltare i conti del governo?

Il rapporto deficit/Pil è funzione della crescita del Pil. Se la crescita del commercio internazionale fosse sostanzialmente al di sotto di quanto è scritto nel Def, allora il governo dovrebbe rifare i conti. Nel 2016 la crescita non sarebbe più dell’1,6%, ma avrebbe probabilmente dei numeri più bassi. Questo obbligherebbe il governo a rivedere verso l’alto le sue stime sul deficit, che al momento per il 2016 prevedono un deficit programmatico del 2,2%.

 

L’Ue potrebbe intervenire?

Il nostro deficit sarebbe comunque al di sotto del 3%, e quindi di fatto non creerebbe problemi rilevanti con la Commissione Ue. Ma se si mettono insieme la voglia italiana di sforare i parametri e un peggioramento della congiuntura, a quel punto il nostro rapporto deficit/Pil potrebbe tornare molto più vicino al 3%.

 

Come valuta l’allarme dell’M5S sulle clausole di salvaguardia?

L’idea con cui opera il governo è che nel 2016 l’economia italiana non avrà recuperato il suo gap rispetto al prodotto potenziale. Avrà dunque ancora bisogno di un sostegno. Il governo si immagina che nel 2017 e negli anni successivi la crescita economica ripartirà, e quindi che a quel punto sarà possibile stringere i cordoni della borsa per quanto riguarda la spesa pubblica e le entrate fiscali.

 

(Pietro Vernizzi)