Il d.d.l. di stabilità, ora all’esame del Senato, sta suscitando, come di consueto, accesi dibattiti e molti interrogativi, uno dei quali concerne l’art. 4, nella parte in cui, modificando la vigente normativa, vorrebbe esentare le abitazioni principali dalla Tasi, nonché i terreni agricoli dall’Imu. Si tratta, com’è noto, del tributo per i servizi indivisibili, ossia di una delle componenti dell’Imposta unica comunale, causalmente legato alle funzioni essenziali dei Comuni, che assume particolare rilievo nell’attuazione dell’autonomia finanziaria di tali enti ai sensi dell’art. 119 Cost.



È dunque comprensibile la preoccupazione espressa da più parti – e, innanzitutto, dal Servizio bilancio del Senato – in ordine alle ricadute che la suddetta disposizione potrebbe determinare a carico del bilancio degli Enti locali e, pertanto, dei cittadini, sia sotto forma di diminuzione e comunque peggioramento dei servizi erogati, sia di esposizione, di fatto, all’incremento, già oggi percepibile, del ricorso abusivo alla leva sanzionatoria per finalità parafiscali. Può essere quindi di qualche interesse indicare alcuni dei profili problematici, con particolare riguardo alla legittimità costituzionale della scelta del Governo.

Viene in rilievo, in primo luogo, la “sede” prescelta dall’Esecutivo per perseguire una finalità qualificata, tra le “Misure per la crescita” (Titolo II), come dispositivo di “Riduzione della pressione fiscale” (Capo I). Ora, la legge di stabilità, secondo la normativa che ne regola procedura di approvazione e contenuti, “dispone annualmente il quadro di riferimento finanziario per il periodo compreso nel bilancio pluriennale e provvede, per il medesimo periodo, alla regolazione annuale delle grandezze previste dalla legislazione vigente al fine di adeguarne gli effetti finanziari agli obiettivi” (art. 1, co. 2). Le norme che tale legge può introdurre non devono essere di carattere ordinamentale od organizzatorio, fatta eccezione per quelle necessarie a garantire l’attuazione del Patto di stabilità interno, fattispecie che non ricorre nel nostro caso. 

Come fu detto efficacemente in relazione alla vecchia legge finanziaria, ma con parole che possono riferirsi anche a quella di stabilità, “l’aspetto finanziario deve essere il movente prevalente e non il mero riflesso della modifica normativa da introdurre” (Barettoni Arleri): ciò che corrisponde, del resto, alla specifica funzione della manovra di finanza pubblica, che non può mutare, invece, in strumento per alterare l’assetto delle competenze costituzionali.

La riforma dell’Imu e della Tasi, viceversa, come emerge anche dalle rubriche del Titolo e del Capo nel quale è contenuta, sembra avere proprio i caratteri di una misura strutturale, che, pur al di là delle questioni relative alle misure di compensazione del minor introito fiscale dei Comuni – alle quali si farà cenno nel prosieguo – interferisce in modo significativo, e probabilmente illegittimo, con l’autonomia finanziaria di questi ultimi. 

La l. n. 196/2009, mentre facoltizza la legge di stabilità a indicare “le variazioni delle aliquote, delle detrazioni e degli scaglioni, le norme necessarie alla eliminazione, riduzione o modifica delle spese fiscali [ma quanto a quest’ultima competenza soltanto dal 1.1.2016] e le altre misure che incidono sulla determinazione del quantum della prestazione, afferenti a imposte dirette e indirette, tasse, canoni, tariffe e contributi in vigore, con effetto di norma dal 1° gennaio dell’anno cui si riferisce, nonché le correzioni delle imposte conseguenti all’andamento dell’inflazione”, cioè pur sempre misure di “regolazione delle quantità” e non invece di costituzione o di eliminazione di un tributo, fa tuttavia salvo “quanto previsto dalla legge 5 maggio 2009, n. 42, con riferimento ai tributi, alle addizionali e alle compartecipazioni delle regioni e degli enti locali” (art. 11, co. 2, lett. b).

Ebbene, la l. n. 42/2009, di delega al Governo in materia di cosiddetto federalismo fiscale in attuazione dell’art. 119 Cost., contempla, tra i principi e criteri direttivi generali, l’esclusione “di interventi sulle basi imponibili e sulle aliquote dei tributi che non siano del proprio livello di governo; ove i predetti interventi siano effettuati dallo Stato sulle basi imponibili e sulle aliquote riguardanti i tributi degli enti locali […] essi sono possibili, a parità di funzioni amministrative conferite, solo se prevedono la contestuale adozione di misure per la completa compensazione tramite modifica di aliquota o attribuzione di altri tributi e previa quantificazione finanziaria delle predette misure nella Conferenza di cui all’articolo 5”, ossia la Conferenza permanente per il coordinamento della finanza pubblica, della quale fanno parte i rappresentanti dei diversi livelli istituzionali di governo.

A stretta regola, dunque, la disciplina statale dei tributi locali non soltanto dovrebbe essere vincolata alla corrispondenza con le funzioni degli enti, ma – sempre in forza dell’art. 119 Cost. – non dovrebbe poter sostituire il prelievo fiscale con altri mezzi di finanziamento. La serie convulsa di riforme succedutesi negli ultimi anni espone molti profili di incoerenza con l’autonomia locale di cui al cit. art. 119 sui quali non ci si può qui intrattenere, ma ben esemplati dalla trasformazione del Fondo sperimentale di riequilibrio, che, istituito in attesa della costituzione di quello perequativo alimentato dalla fiscalità generale, nel sistema della l. n. 42/2009 doveva essere sostenuto con il gettito di tributi erariali immobiliari: l’art. 1, co. 380, l. n. 228/2012 (legge di stabilità 2013) ha invece sostituito tale fondo con quello di solidarietà comunale, alimentato con una quota dell’imposta municipale propria di spettanza dei Comuni.

Ben a ragione il Servizio bilancio del Senato ha stigmatizzato tale sostituzione, rilevando le conseguenze che ne discendono in termini di rigidità della gestione rispetto a quanto accade con le entrate derivanti da tributi propri. Non può sfuggire, infatti, l’ispirazione “centripeta” di questo aspetto della manovra, criticato anche dalla Corte dei Conti, in sede di audizione parlamentare, affermando che “si viene così a sterilizzare la più importante leva fiscale a disposizione dei Comuni, riducendo il grado di autonomia impositiva delle Amministrazioni locali, con un impatto sul territorio che penalizzerebbe le realtà che meno avevano spinto sugli aumenti di aliquota”. A ciò va aggiunto quanto sostenuto dalla Banca d’Italia nella stessa sede: “Il disegno di legge di stabilità prevede che le risorse a disposizione dei Comuni restino sostanzialmente invariate, aumentando l’entità dei trasferimenti statali; la ricomposizione delle fonti di finanziamento comunali, con l’aumento del peso dei trasferimenti e la riduzione di quello dei tributi propri, se non accompagnata da attente misure di controllo, comporta il rischio di creare incentivi ad accrescere la dinamica della spesa locale”.

Sotto altro profilo, può lasciare non meno perplessi la scelta di incidere su un tributo la cui causa impositionis non consiste nel possesso di immobili, bensì nell’erogazione e corrispondente fruizione dei servizi comunali, rispetto alle quali il possesso o la detenzione qualificata di immobili svolgono la funzione di indice rivelatore (art. 1, co. 639, l. n. 147/2013). È in tale contesto che deve, allora, essere valutato il significato dell’estensione dell’esenzione e non già in quello della predicata eliminazione del prelievo fiscale sull’abitazione principale. Le due fattispecie non possono sovrapporsi.

E del resto, quando si riporti la questione nei suoi termini effettivi, diviene ancor più difficile darsi conto del perché il nostro legislatore non voglia far uso della discrezionalità di cui dispone, che gli consentirebbe, anche in applicazione dell’art. 53 Cost. e, dunque, della regola della progressività dei tributi in rapporto alla capacità contributiva, di deliberare norme impositive con una struttura più articolata e perciò capace di meglio e più fedelmente adattarsi sia allo scopo del tributo, sia alla condizione di chi vi è soggetto.

Nello stesso senso merita di essere segnalato che proprio l’attinenza della Tasi ai servizi comunali richiederebbe che le scelte a essa relative rientrassero pienamente nel circuito di responsabilità politico-amministrativa dell’Ente, a vantaggio, in primo ed essenziale luogo, dei cittadini.

Un’ultima notazione riguarda la disposizione della legge di stabilità (art. 4, co. 8) in forza della quale “per l’anno 2016 è attribuito ai comuni un contributo di complessivi 390 milioni di euro da ripartire, con decreto del Ministero dell’interno, di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze, da adottare entro il 28 febbraio 2016, in proporzione alle somme attribuite, ai sensi del decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 6 novembre 2014, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 271 del 21 novembre 2014, adottato ai sensi dell’articolo 1, comma 731, della legge 27 dicembre 2013, n. 147. Le somme di cui al periodo precedente non sono considerate tra le entrate finali valide ai fini del vincolo del pareggio di bilancio di cui all’articolo 50. Le disponibilità in conto residui iscritte in bilancio per l’anno 2015, relative all’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 1, comma 10, del decreto-legge 8 aprile 2013, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2013, n. 64, e successive modificazioni, sono destinate, nel limite di 390 milioni di euro, al finanziamento del contributo di cui al presente comma, che entra in vigore il giorno stesso della pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della presente legge. A tal fine le predette somme sono versate all’entrata del bilancio dello Stato nell’anno 2016”.

Il Servizio bilancio del Senato ha portato a evidenza l’ambiguità dell’espressione “disponibilità in conto residui”: se si trattasse, infatti, di residui cosiddetti “propri” si avrebbe che il suddetto contributo ai Comuni deriverebbe da somme sottratte alle finalità proprie del “Fondo per assicurare la liquidità per pagamenti dei debiti certi, liquidi ed esigibili”, istituito dal d.l. n. 35/2013 per sovvenire, tra l’altro, gli Enti locali nel pagamento di propri debiti ormai scaduti.

Risulterebbe allora evidente il paradosso della scelta che, sotto le mentite spoglie di una misura di alleggerimento del carico fiscale, si convertirebbe quasi nel prelievo occulto consistente nel ritardo, a carico dei cittadini e spesso esiziale, dell’adempimento delle obbligazioni pecuniarie dell’Amministrazione.

E altrettanto evidente apparirebbe la contraddizione tra la funzione dichiarata della norma in questione (ossia l’introduzione di misure per la crescita) e i mezzi prescelti per provvedervi.