Proprio sicuri che se anche i creditori internazionali daranno il via libera al piano greco (stando al solitamente ben informato anche se tendente al mistificatorio quotidiano tedesco Bild, consistente in 5 miliardi di euro di nuove entrate dal fisco e 2,3 dalla lotta al contrabbando, oltre a una rateazione agevolata in 100 scadenze per pagare tasse arretrate), la questione sia risolta una volta per tutte? Ma, soprattutto, credete che la questione ellenica sia stato davvero una main event per i mercati e che, una volta superata, per l’eurozona saranno solo orizzonti di serenità e cieli azzurri?
Partiamo da principio, ovvero dal fatto che per quanto la cosa sia stata tenuta il più possibile nascosta, la Grecia ha pronte dal 2013 le sei nuove dracme: per l’esattezza, banconote da 50, 100, 200, 500 e 1.000 e 10.000, disegnate da Paul Vatikioti e raffiguranti Cornelius Castoriadis, Odysseus Elytis, Yiannis Moralis, Georgios Papanikolaou, Melina Mercouri e Maria Callas. Ecco a voi, a fondo pagina, quella della Callas, nel caso pensiate sia una bufala . Al netto di questo e degli interessi esterni che il “Grexit” comporterebbe, leggi per Usa e Russia in chiave di destabilizzazione e indebolimento dell’Ue, c’è qualcosa che la vulgata generale non ci ha fatto notare: ovvero, che esattamente come i bambini di Hamelin, i credit markets sono ormai ipnotizzati da mesi dalla soave musica di Mario Draghi, la cui sinfonia finale presentata il 22 gennaio scorso, ha rappresentato il capolavoro assoluto della nuova economia centralizzata. Non a caso, la volontà di godersi con il vento in poppa quest’ultima ondata di liquidità offerta dalle banche centrali ha spedito i differenziali dell’investment grade ai minimi record, di fatto spingendo gli investitori verso l’alto rendimento alla disperata ricerca di qualche quarto di punto su cui tentare ancora un carry trade.
Certo, il Qe annunciato dall’Eurotower ha messo in campo un enorme effetto placebo per i mercati, anestetizzando il rischio implicito nei bond ellenici e nel sistema bancario – di fatto fallito e totalmente dipendente dall’Ela – ma non potrà nulla contro il vero market-mover, ovvero i timori del mercato verso il possibile diffondersi del “virus Syriza”, cioè la vittoria – pressoché annunciata – di Podemos nelle regionali spagnole di maggio e nelle politiche di fine anno. Anche perché il leader del movimento, Pablo Iglesias, ha già annunciato la sua intenzione di ristrutturare 1,1 triliardi di dollari di debito spagnolo in caso di sbarco al potere. Detto fatto, gli analisti hanno immediatamente tolto dai loro monitor la Grecia e hanno cominciato a tracciare unicamente il rischio iberico, ponendosi come domanda principale la seguente: quanto saliranno i rendimenti sul medio termine se la popolarità di Podemos non solo persistesse ma divenisse un’alternativa politica fattiva?
Stando a un sondaggio condotto da Bloomberg la scorsa settimana, infatti, una crescita ulteriore del consenso verso Podemos potrebbe sostanziarsi in un aumento di 50 punti base su securities decennali, stando almeno alla media stimata dello studio. Per Jean-Louis Mourier, economista alla Aurel Bgc di Parigi, «in caso di una chiara vittoria di Podemos, il differenziale tra Bonos e Bund potrebbe crescere fino a 50 punti base, forse oltre. Se poi si arrivasse a un dibattito sul ripudio di parte del debito spagnolo, allora le tensioni potrebbero essere molto più intense sulla parte breve e media della curva dei rendimenti». E la cosa non deve stupire: se la Grecia pesa soltanto per il 2% del Pil dell’eurozona, la Spagna con la sua economia è all’11% e, come ci ricorda l’estate del 2012, quando e se il decennale spagnolo dovesse tornare al 7%, il cosiddetto punto di non ritorno, in gergo si dice che “all bets are off”, tutte le scommesse saltano.
E per arrivare al punto critico, diciamo che un deterioramento sul mercato del debito sovrano spagnolo potrebbe avere un severo e immediato effetto a catena, per il semplice fatto che il credito investment grade tende a tracciare i grandi Paesi periferici, come la Spagna e non certo la Grecia. Il più grande canale di contagio per l’eurozona, infatti, non è il sistema bancario greco, bensì qualcosa di molto più sistemico per i mercati del credito presi come insieme, ovvero il potenziale ritorno del rischio di ri-denominazione. Nello specifico, se i mercati cominciano a prezzare un aumento del rischio riguardo la possibilità che un altro Stato membro esca dall’Unione, a quel punto il rischio potrebbe non essere più limitato e controllato. Le esposizioni bancarie e corporate verso la Spagna, l’Italia e altre economie europee sono molto più tangibilii e materiali rispetto a quelle verso Atene, quindi gli spread legati al credito finora sono stati molto più correlati verso le performance di Roma e Madrid che non della Grecia e quasi tutti gli analisti si attendono che questo trend prosegua.
Il primo grafico a fondo pagina, che mette in relazione il credito investment grade e i rendimenti spagnoli, ci mostra quanto importante sia la situazione politica iberica. E, come ci mostra il secondo grafico, nonostante l’azione di front-running della Bce abbia mantenuto gli spread italiani e spagnoli molto compressi (ieri il nostro Btp toccava un rendimento ai minimi storici sul Bund, sotto l’1,5%), il rischio di contagio è reale. Perché nonostante si guardi sempre al mercato azionario e obbligazionario, in realtà il canale di trasmissione del rischio principale è quello politico e nazioni come la Spagna potrebbero soffrire un contagio nonostante la loro ripresa economica in atto (sulla cui entità avrei molto da ridire), questo a meno che il faccia a faccia tra Syriza e creditori internazionali o peggio un’uscita della Grecia dall’euro con tutte le conseguenze che questo avrebbe per Atene nel breve periodo, non facciano diminuire il supporto popolare per Podemos, almeno stando a uno studio di Barclays.
E la cartina di tornasole ce la offre il terzo grafico, ovvero il fatto che i differenziali dei credit default swaps di Spagna e Italia stanno tradando molto più ravvicinanti e compressi di quanto dovrebbero, anche se dovessimo calcolare a prescindere che non ci sarà “Grexit”. Attenzione a queste dinamiche, perché come i mercati sono stati placidi per mesi, blanditi dalla Bce e dalle sue promesse, così possono ribaltare la situazione in un attimo e farla precipitare in tempi molto, molto brevi, “Grexit” o non “Grexit”.
Tanto più che da sempre più parti arrivano appelli al realismo, finora inascoltati. L’ultimo in ordine di tempo è stato quello di Kingsley Jones, fondatore e amministratore delegato della Jevons Global, a detto del quale «il debito greco non è ripagabile in questa vita, nemmeno se verrà garantita un’estensione del programma di salvataggio. Hanno una ratio debito/Pil al 175%, molto più alta di quando l’intera questione ellenica ha avuto inizio. Guardiamo al Giappone, il suo debito governativo sta avvincinandosi rapidamente al 300% del Pil, un giorno semplicemente quella massa di debito imploderà. Ripeto, non esiste possibilità che il debito nipponico sia ripagato, così come quello greco. Non serve a nulla restare arroccati sul piano morale». E ancora: «I termini dell’attuale accordo impongono che la Grecia debba mantenere un surplus di budget di oltre il 4% per più di una decade, nessuna nazione con un’economia in crisi è mai riuscita in un’operazione simile. Quindi, penso che i termini imposti ad Atene siano francamente irrealistici».
E se Alexis Tsipras sembra aver abbandonato la strada dell’haircut sul debito greco esistente, molti analisti pensano che invece quella sia la strada da percorrere, quanto meno la più credibile: per Nicholas Ferres, direttore degli investimenti alla Eastspring Investments, «l’Eurogruppo deve accettare che la Grecia è insolvente e necessita di un haircut materiale. Si sarebbe dovuta seguire questa strada già nel 2010, mentre invece si è preferito estendere la concessione del credito e portare avanti il problema. La Grecia ha perso il 30% della produzione dai suoi picchi massimi, è l’equivalente della Grande depressione degli anni Trenta, l’austerity non è sostenibile». E attenzione, perché a breve anche il teatrino di fiducia incrollabile messo in piedi dalla compagnia stabile di Mario Draghi potrebbe svelarsi per quello che è: una farsa, pericolosa.
Mentre ormai le rotative della stamperia di Francoforte stanno cominciando a scaldarsi in vista del Qe, emerge infatti una nuova criticità: ovvero, se fino al 2012 il principale problema per Mario Draghi era quello di convincere gli investitori a tenere le loro obbligazioni, ora potrebbe avere il problema contrario, cioè riuscire a convincerli a venderle nell’ambito del programma di monetizzazione. Non è un problema da poco, perché la Bce potrebbe essere costretta a comprare molto al di sopra dell’attuale prezzo di mercato o prendere misure addizionali per incoraggiare gli investitori a vendere. Ne è un chiaro esempio Antonio Lissowski, amministratore delegato della compagnia di assicurazione francese Cnp Assurances, a detta del quale «noi preferiamo detenere i nostri bond. La politica della Bce ormai sta raggiungendo il limite».
Le banche, infatti, solitamente comprano bond a breve termine e usano il debito governativo come un cuscinetto di liquidità, quindi vendere equivarrebbe obbligarle a investire in altri assets, per i quali – a differenza dei bond sovrani – i regolatori chiedono agli istituti di accantonare capitale a garanzia. In alternativa, potrebbero depositare il denaro ottenuto dalle vendite alla Bce, la quale però ha applicato un tasso negativo dello 0,20%, quindi occorre pagare per parcheggiare contante overnight a Francoforte. Dal canto loro, invece, assicurazioni e fondi pensioni acquistano debito a lungo termine e potrebbero vedere dei profitti dalla vendita alla Bce, ma quel denaro dovrebbe essere reinvestito in bonds i cui rendimenti sono molto più bassi di quelli concordati con i loro clienti per i loro investimenti a lungo termine.
Per Bart de Smet, amministratore delegato dall’assicuratore belga Ageas, «se dovessimo vendere i bonds, otterremo grossi capital gains, ma dovremmo reinvestire quel denaro con un rendimento dello 0,5%, il tutto a fronte di un liabilities potenziale del 3,50-3,75%». Ma sono anche altre le istituzioni che non sembrano intenzionate a vendere, tra cui le banche olandesi Ing e Rabobank, le spagnole Bankinter e Bankia e Bnp Paribas, il cui vice Ceo, Phillipe Bordenave, sostanzia così la scelta: «Il volume delle nostre detenzioni di bond sovrani al momento non è legato alla politica monetaria ma alla regolamentazione». Ma siccome tutto a un prezzo, gli strategist di Rbs vedono un 40% di possibilità che gli acquisti della Bce saranno il driver per portare il rendimento del Bund tedesco a 10 anni in territorio negativo già quest’anno.
«C’è scarsità di bonds per andare incontro all’attuale domanda globale, per cui sarà dura vedere molto venditori. Il rischio è che se la Bce veramente comprerà per 60 miliardi di euro al mese, allora l’impatto sul prezzo sarà davvero sostanziale», conclude Patrick O’Donnell, portfolio manager alla Aberdeen Asset Management. Quindi, se per caso la Grecia dovesse uscire dall’euro, la pressione potrebbe salire e garantire alla Bce la possibilità di stampare e comprare di più: ma a quale prezzo, finanziario e politico e da quale seller? Insomma, i rischi ci sono, ma non sono quelli che vi vengono propinati dalla grande stampa. Inoltre, con tutto il rispetto per la Grecia, l’unico vero appuntamento per questa settimana sono le due testimonianze di Janet Yellen davanti al Comitato bancario del Senato stanotte e domani davanti al Financial Services Committee: solo così capiremo cosa sta accadendo. Solo così, forse, avremo l’idea se la musica sui mercati stia solo rallentando o stia per fermarsi, nel qual caso è salutare continuare a ballare, ma stando vicino alla porta d’uscita.
Anche perché a lanciare l’allarme ci ha pensato ieri un predecessore della Yellen, Alan Greenspan, il quale interrogato su un tema specifico come il possibile andamento dell’oro nel breve-medio termine, ha di fatto sganciato una bomba atomica. Definendo le prospettive per il metallo prezioso, «decisamente al rialzo», l’ex capo della Fed ha poi concluso così il suo discorso: «Dall’era del Quantitative easing e dei tassi a zero da parte della Fed non si può uscire senza che accada un significativo evento di mercato… Sia esso un crash sul mercato azionario o una prolungata recessione, la quale potrebbe portare a un nuovo round di reflazione monetaria da parte della Banca centrale». Insomma, un evento di credito – e di quelli che si ricordano – sarebbe alla porta, tanto che l’oro ne beneficerà sostanzialmente: cosa vi dico da qualche mese, non più settimane, a questa parte? La Fed ha bisogno di stampare e le minute della sua ultima riunione parlano questa lingua, tanto che tutte quelle righe dedicate alle criticità che il crollo del prezzo del petrolio sostanziano per l’economia reale, nella fattispecie per l’occupazione e le dinamiche salariali, si riassumono nel primo grafico a fondo pagina, il quale ci mostra quale sia stato il driver occupazionale della ripresa Usa negli ultimi anni, ovvero il boom dello shale oil e gas e del comparto energetico. E ieri il Wti è sceso ancora, nella handle dei 48 dollari, non certo aiutato dalla notizia che l’Oman, un Paese produttore ma non Opec, abbia annunciato l’aumento dell’output a 980mila barili al giorno per l’intero 2015, il 4% rispetto al 2013, mentre i dati relativi al 2014 saranno resi noti ad aprile.
Ma soprattutto, da venerdì scorso non sono più da solo a dire che l’economia globale è rientrata in contrazione, visto che a confermare la cosa ci ha pensato il Global Leading Indicator di Goldman Sachs, il quale dopo aver passato lo scorso anno a deteriorare ogni mese e restare in positivo solo grazie alla “crescita” misurata in termini assoluti, ora parla di contrazione e con un netto calo di accelerazione e crescita in febbraio, come ci mostra il secondo grafico. Mentre, il terzo grafico dimostra come il Gli “momentum indicator” sempre di Goldman Sachs sia ora sotto zero per la prima volta dal 2012.
Continuate davvero a pensare che la Grecia sia il problema più grave che ci troveremo ad affrontare da qui all’estate? Forse all’Eurogruppo e nei meandri di quel disfunzionale comitato d’affari chiamato Commissione Ue non hanno ben chiaro quali rischi ci attendano nel breve e medio termine: sarà il mercato a suonare un’altra volta la sveglia. Ma temo che saremo noi a pagare ancora una volta il conto.