Premi Nobel e guru della finanza globale riuniti a New York lanciano l’allarme per il rischio di una stagnazione secolare, che secondo l’economista Paul Krugman è uno scenario “certamente ancora più plausibile per l’Europa”. Usa invece toni diversi il governatore della Bce, Mario Draghi, che parlando a un convegno a Francoforte ha dichiarato che “sta prendendo piede una ripresa economica sostenuta” e “possiamo essere giustamente ottimisti sulle prospettive”. Secondo Draghi, “tra imprese e consumatori la fiducia sta risalendo. Le previsioni di crescita sono state riviste al rialzo. E il credito bancario sta migliorando sia sul lato della domanda che su quello dell’offerta”. Ne abbiamo parlato con Oscar Giannino, giornalista economico.
Davvero stiamo andando incontro a una “stagnazione secolare”?
Quella su una “stagnazione secolare” a livello globale è una tesi ispirata a un grande pessimismo che non mi convince troppo. Negli ultimi 20 anni la produttività in Cina e India è aumentata a livelli vertiginosi, il problema riguarda piuttosto l’Europa la cui bassa crescita nasce da tre tipi di problemi: il declino demografico, i bilanci pubblici in passivo e le asimmetrie nell’Eurozona.
In che modo l’invecchiamento della popolazione incide sull’economia?
Incide perché comporta un innalzamento dell’età media delle classi al lavoro. A ciò si aggiunge la necessità di adottare una tecnica nella finanza pubblica, quella cioè dei conti intergenerazionali, che si stenta a implementare. Quando in una società ci sono troppi pochi bambini, lo squilibrio attuariale contributivo per i sistemi previdenziali e per la contribuzione sanitaria diventa sempre più forte. È un fattore di squilibrio europeo che non è provocato dai cicli economici ma che li determina.
Da dove nascono i problemi nei bilanci pubblici dei paesi europei?
Nascondo dal fatto che la nostra percentuale di welfare, rispetto a quella di tutto il mondo, è più elevata. L’Europa non è la parte più popolosa del mondo, ma ha una cultura del welfare pubblico che determina dei costi crescenti. Questi costi sottraggono risorse private per investimenti produttivi. Dal momento che la media europea delle risorse destinate al welfare è al 40/50% del Pil (l’Italia è oltre il 50%), ciò drena risorse e rallenta la crescita.
In che senso lei parlava di asimmetrie all’interno dell’Eurozona?
Abbiamo creato un’area monetaria senza unire il mercato dei beni e dei servizi, un fatto ancora più grave di una moneta comune senza organi politici comuni. Questa asimmetria è diventata sempre più grave, come si vede dal problema del riequilibrio dei conti esteri. Da un lato c’è la Germania che è stata virtuosa e ha deflazionato l’eccesso di costo della manodopera.
Con quali conseguenze?
In questo modo Berlino ha ripristinato in maniera radicale le ragioni di competitività internazionale. Ma soprattutto si è avvalsa di una bilancia commerciale e dei pagamenti che da un lato rappresenta la forza di quel sistema produttivo, ma dall’altro ha picchiato come un maglio sui paesi eurodeboli che erano in deficit. Il riaggiustamento della bilancia dei pagamenti avviene dopo il 2011 per la compressione delle importazioni e dei consumi interni, e non rappresenta affatto un riassestamento virtuoso.
L’Europa è condannata alla stagnazione?
Il problema della bassa crescita europea non ha a che vedere con una stagnazione secolare, a meno di rassegnarsi all’attuale andamento demografico, a costi del welfare abbastanza inefficaci ma molto alti e a una struttura asimmetrica dell’euro. Se in Europa non facciamo nulla per modificare queste tre macro-condizioni che determinano minor crescita rispetto ai paesi avanzati e alla piattaforma asiatica, siamo noi a sceglierci una prospettiva di stagnazione se non secolare quantomeno pluridecennale.
È possibile risolvere questi problemi?
Io ritengo che ci siamo tutte le condizioni per dare le risposte necessarie a questi problemi, e non credo affatto al pessimismo di fondo che anima i Nobel che si sono riuniti a New York, secondo cui si sarebbe esaurita la spinta all’innovazione che fa aumentare la produttività. A preoccuparmi di più sono le tre ragioni del rallentamento europeo.
E l’Italia come è messa?
Se guardiamo all’Italia, la curva demografica non è identificata e aggredita come una priorità nazionale. Il problema dei conti pubblici a sua volta non è visto come una priorità, anzi si torna a parlare di smontare la riforma delle pensioni. La terza questione è ancora più rilevante: noi ci stiamo baloccando con la vicenda greca, che però è oggettivamente molto secondaria rispetto ai problemi che attendono una risposta per quanto riguarda il riequilibrio delle asimmetrie dell’euro.
(Pietro Vernizzi)