Il governo Tsipras perde colpi? È possibile, stando a due freschi sondaggi. Il primo rileva che la percentuale dei voti che raccoglierebbe oggi Syriza è sceso di 2 punti percentuali (dal 36,6% delle elezioni di gennaio al 34,6% di oggi). A dieci punti percentuali è scesa la differenza con Nea Democratia (nel precedente sondaggio di venti giorni addietro la differenza era di 11,4 punti). Inoltre, il 57,3% pensa che sia possibile arrivare alla bancarotta, mentre il 49,7% crede possibile anche un “Grexit”. Anche l’altro sondaggio eseguito dall’Università “Macedonia” di Salonicco rileva una perdita di consensi. Per la precisione, il 45,5% pensa che sia corretta la linea del governo nelle trattative con Bruxelles (a febbraio la percentuale era 72%). All’opposto il 39,5% la giudica sbagliata (a febbraio la percentuale era del 28%). Sulla prospettiva di un’uscita dalla moneta unica, il 56% si dichiara preoccupato (a febbraio la percentuale era del 35,5%).
Per quanto possano valere questi numeri, l’ipotesi di elezioni anticipate a fine giugno è alquanto azzardata. Il governo ha abituato l’opinione pubblica ad alzare molta polvere: una forma autoctona di “annuncite”, per cui è probabile che anche questa soluzione sia da considerarsi parte della tattica nelle trattative. Le conseguenze che questi annunci hanno sulla società sono irrilevanti per il governo.
Per tornare alla cruda prassi, il governo è stato costretto a emanare un atto legislativo urgente (decisione “vergognosa” e sempre contestata quando Syriza era all’opposizione) per “confiscare ” le riserve monetarie di comuni, regioni e società a controllo pubblico (comprese quelle quotate in Borsa) e depositarle in un conto riservato della Banca centrale greca, che pagherà un tasso di interesse del 2,5%. Indiscrezioni dicono che si potranno raccogliere circa 2 miliardi. Risparmiati i fondi pensioni.
Le amministrazioni locali non hanno gradito, sostenendo che “il governo agisce come un dittatore”, e hanno minacciato di rivolgersi al Consiglio di Stato (l’equivalente della nostra Corte dei Conti) per chiedere di annullare il provvedimento. Un rapido calcolo ci dice che entro fino maggio la Grecia dovrà sborsare, tra stipendi, pensioni e debiti, almeno 5,3 miliardi, e senza la bombola di ossigeno della Comunità europea il Paese potrebbe dichiarare la bancarotta. Questa decisione ha intensificato le speculazioni circa la possibilità che la Grecia stia finendo i soldi e che non riesca a rispettare i suoi obblighi nei confronti dei creditori internazionali. Sui mercati infatti si è intensificata la pressione sugli asset di Atene che hanno vissuto un’altra giornata difficile per i bond greci con lo spread tra il decennale e il Bund tedesco che vola 1.330 punti, toccando i massimi dal dicembre del 2012. Il rendimento del titolo di Atene è schizzato al 13,5%, la scadenza a tre anni mostra un rendimento al 28,55%, mentre i credit-default-swap danno una percentuale dell’81% di possibilità che la Grecia non possa onorare i suoi debiti nei prossimi cinque anni.
“Arriva la speranza” è stato lo slogan della campagna elettorale di Syriza. Bene, se la speranza è l’ultima a morire – secondo un antico adagio – il governo si dichiara ottimista, speranzoso, che entro l’11 maggio si arriverà a un accordo. Il giorno successivo dovrà versare al Fmi 747 milioni di euro. Prima dovrà avere a disposizione, entro fine di questo mese, circa 1,9 miliardi per pagare stipendi (la seconda quindicina, 600 milioni) ai dipendenti pubblici e pensioni (1,3 miliardi) che dovrebbero essere coperti dall’ultima raccolta forzosa. E poi?
Beh, il 1 maggio, è la festa dei lavoratori, sarà quest’anno una data storica per il primo governo di sinistra radicale che sia arrivato al potere, grazie più a politiche sbagliate che per scelta condivisa dalla società. Si dovranno prendere decisioni importanti per il futuro del Paese, decisioni che riguardano proprio i lavoratori meno protetti, cioè quelli del settore privato. Senza accordo, niente investimenti, senza investimenti nessun posto di lavoro, senza lavoro la Grecia piomberà nel baratro. In una lettera al Financial Times, il presidente dell’Istituto Bruno Leoni, Franco Debenedetti, scrive: «Se avviene per ragioni di democrazia, non c’è motivo che l’uscita dall’euro della Grecia segni la fine dell’euro e dell’Europa. Si potrebbe persino sostenere il contrario, e cioè che il non accettare la scelta democratica di un Paese sia la fine di quello che l’Europa dichiara di essere».
D’altra parte, la Grecia è sempre più isolata in campo internazionale. Gli Usa hanno manifestato il loro forte disappunto per la possibile scarcerazione, per motivi di salute, di un terrorista dell’organizzazione “17 novembre” che, negli anni passati, ha ucciso parecchi funzionari e un ambasciatore americani in territorio ellenico, l’Europa sta premendo per una soluzione delle trattative che vanno, nonostante i “progressi” annunciati dal governo, a rilento. “Ho perso la pazienza con la Grecia”, ha dichiarato il presidente della Commissione Europea Jean-Cluade Juncker. Resterebbe Mosca e il gasdotto. Il cenacolo della sinistra-sinistra, la pagina internet “Iskra”, scriveva, due giorni fa, del “gasdotto della liquidità”, a proposito della notizia, poi smentita dal Cremlino, dell’arrivo di 5 miliardi quale “caparra” per la futura operabilità dell’operazione “Greek Stream”. Oggi, il leader della corrente politica e ministro dell’Energia, Panagiotis Lafazanis, è giunto a più tiepide valutazioni, perché la realizzazione di quest’opera è ancora sulla carta. Ma ha rilanciato, invitando i cinesi a collaborare nelle ricerca di petrolio e metano nell’Egeo, ma forse si è dimenticato dell’analoga proposta fatta dal ministro della Difesa, il neo-nazionalista, Panos Kammenos, agli americani.
Certo, un po’ di confusione regna nella compagine parlamentare della maggioranza. A volte con buffi risultati. Ad esempio, la deputata di Syriza, Rachel Makri già deputata della lista dei neo-nazionalisti dei Greci Indipendenti nella scorsa legislatura, ha inviato una lettera di auguri ai partecipanti di un convegno di pellicciai della sua circoscrizione elettorale suscitando le vibrate proteste del segretario dell’organizzazione ecologista di Syriza e del responsabile locale del partito il quale ha affermato che “Rachel non è di Syriza”. C’è da chiedersi, quando il governo dovrà occuparsi anche della quotidianità, quando questa, si spera, arriverà a trattative concluse.
Per il momento tutte le energie sono rivolte altrove. Nelle ultime 24 ore, da Parigi dove si sono trasferiti i tecnocrati, giungono dichiarazioni contrastanti: i greci parlano di progressi, gli altri sono cauti. È vero, passi avanti se ne sono fatti, soprattutto in tema di privatizzazioni (da chiarire dove finiranno gli introiti: il governo vorrebbe che venissero usati per sostenere il sistema pensionistico, i creditori per ridurre il debito) e finanze, senza che sia ancora stabilita la percentuale di crescita del Pil.
Oggi, nel corso dei lavori dell’Eurogruppo si avranno idee più chiare. Ma c’è da scommettere che avremo da interpretare tre versioni: quella del governo, quella degli europei e quella dei “telegiornali delle 20”. Quest’ultimi hanno dichiarato “guerra” al governo. E non solo per ragioni politiche, quanto per ragioni economiche perché Tsipras li sta obbligando a pagare le royaltes (2% sul fatturato) sulla frequenze usate, a partire dagli arretrati del 2011. Aprire un contenzioso con la stampa in Grecia è rischioso: più che un parlamento parallelo, è una lobby di potere economico-finanziario difficile da frantumare. Malgrado la sua “annuncite”, Tsipras non ha una massa politica sufficiente per scontrarsi con i “poteri forti”.