La Corte costituzionale, con la sent. n. 70/2015, ha tra l’altro ritenuto che il sistema di blocco dell’indicizzazione per le pensioni di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo Inps (cioè euro 1217,00 netti) sia illegittimo per la genericità delle motivazioni assunte a presupposto dell’art. 24, co. 25, d.l. n. 201/2011, confermata e, anzi, aggravata dalla mancanza di ogni documentazione tecnica, in sede di conversione, circa le attese maggiori entrate, richiesta invece dall’art. 17, co. 3, l. n. 196/2009, dando luogo, insomma, a un irragionevole sacrificio dei diritti dei pensionati “nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”.
Il ministro dell’Economia, all’indomani dell’approvazione del decreto-legge di (sedicente) ottemperanza alla sentenza della Consulta, reitera l’errore e, confessando la parzialità dell’adempimento predisposto (val quanto dire, l’inadempimento a un dispositivo in sé chiaro e inequivocabile, che impone la restituzione, a tutti i pensionati, delle somme corrispondenti alla rivalutazione monetaria maturata per gli anni 2012 e 2013 secondo il meccanismo stabilito dall’art. 34, co. 1, l. n. 448/1998), si rifugia nella non meno generica invocazione dei limiti posti dalle regole europee (così nell’intervista rilasciata alla trasmissione Mix24 di Radio24, che può leggersi a p. 5 dell’edizione de Il Sole 24 Ore del 21 maggio 2015), accompagnata dalla prospettazione di scenari ed esiti esiziali.
La questione meriterebbe, invece, innanzitutto da parte dei vertici dell’esecutivo, ben altro dettaglio. Se fosse vero, infatti, che le norme europee possono impedire o comunque frenare persino l’esecuzione delle sentenze dell’organo statale deputato – si badi – a custodire quei principi supremi che rappresentano i controlimiti alle limitazioni di sovranità che sono effetto della partecipazione dell’Italia all’Unione europea, saremmo di fronte a un fatto istituzionale nuovo e (sinora) inaudito: sarebbe, infatti, ormai dissolto ogni frammento di sovranità nazionale, anche nella forma residuale dei presidi di conservazione dell’identità statuale, e, insomma, la stessa adesione all’Ue troverebbe titolo altrove e non più nella Costituzione (formalmente) vigente.
L’evento sarebbe aggravato, però, dalla collaborazione prestata da alcune delle istituzioni statali – per commissione, ma anche per omissione – dalle quali è lecito attendersi, al contrario (e come del resto è accaduto e continua ad accadere in diversi Paesi europei) l’adozione di ogni misura necessaria a impedire il compiersi della suddetta dissoluzione. Né può sfuggire la differenza dei controlimiti all’italiana rispetto al peso, anche politico, attribuito in Germania alle sentenze del Bundesverfassungsericht che, a più riprese, hanno perimetrato attentamente le condizioni e i limiti di assoggettamento della Germania al diritto europeo.
Nonostante il ricorso a qualche escamotage verbale, il Governo – stando alle dichiarazioni ufficiali – ha deliberatamente eluso la decisione della Corte costituzionale che, come si accennava, impone allo Stato la restituzione a tutti gli aventi diritto delle somme corrispondenti alla rivalutazione delle pensioni in forza dell’art. 34, co. 1, l. n. 448/1998, senza che possa farsi luogo ad altre “calibrature” percentuali che non siano quelle (esse pure di dubbia legittimità costituzionale e, tuttavia, sinora rimaste indenni) previste dal vigente sistema previdenziale, una volta depurato dalla disposizione illegittima.
Il ministro dell’Economia, in un’intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica il 22 maggio 2015, si spinge sino a lamentare – al di fuori di ogni fondamento giuridico-costituzionale – che la Corte non avrebbe tenuto conto delle informazioni (quali? E fornite da chi? E a che titolo?) e che, in ogni caso, “se ci sono sentenze che hanno un’implicazione di finanza pubblica, deve esserci una valutazione dell’impatto. Anche perché questa valutazione serve a formare il giudizio sui principi dell’equità. L’equità è anche quella del rapporto tra anziani e giovani. Questo è mancato e auspico che in futuro l’interazione sia più fruttuosa”.
Parole che scontano gravi fraintendimenti in relazione alla funzione esercitata dalla Corte costituzionale (si veda la risposta del Presidente Criscuolo nell’intervista al quotidiano La Repubblica del 23 maggio 2015), alla quale non spetta affatto di giudicare secondo equità e tantomeno secondo una soggettiva “equità finanziaria”: se venisse assecondato l’auspicio di Padoan, ci si potrebbe aspettare, in qualsiasi giudizio, che il debitore dolosamente inadempiente venga mandato assolto per il sol fatto che non intende destinare le risorse necessarie a pagare il debito. “Logica” ancor più inaccettabile in quanto corredata dall’evocazione, che pare una larvata minaccia estorsiva, dell’aumento della imposizione fiscale (e di quella Iva in particolare) che sarebbe, a dire del Governo, necessaria per fare fronte agli effetti della decisione del Giudice delle leggi. Ma si tratta di affermazioni che denotano anche una non commendevole attitudine a travalicare dai limiti propri della funzione dell’esecutivo e a tenere in discaro uno degli architravi degli ordinamenti contemporanei, che consiste nella giustiziabilità dei diritti costituzionali, i quali, con buona pace del Ministro, non si riducono a meri ottativi.
L’intendimento elusivo è stato del resto portato a effetto con il d.l. n. 65/2015, approvato dal Consiglio dei Ministri nella riunione del 18 maggio scorso. Basti in proposito osservare:
Che, già nelle premesse e poi nuovamente nell’art. 1, il preciso (e precettivo) dispositivo della sent. n. 70/2015 viene “trasformato” in una enunciazione di principio, la cui attuazione spetterebbe al Governo: la sentenza della Corte costituzionale, viceversa, avendo accertato e dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 24, co. 25, d.l. n. 201/2011, pertanto espunto dall’ordinamento a far data dal giorno successivo a quello della pubblicazione della sentenza medesima, determina senz’altro l’effetto di legittimare tutti coloro ai quali era stata negata la rivalutazione automatica per gli anni 2012 e 2013 ad attenderne la restituzione, con gli interessi e la rivalutazione (anche ai sensi dell’art. 429, co. 3, c.p.c.) a far data dalla maturazione del diritto. L’ottemperanza alla sentenza avrebbe quindi richiesto, semmai, semplici atti di indirizzo dei Ministeri competenti. La sedicente attuazione a mezzo di norme di rango primario esprime la volontà di mutare il quadro giuridico, nel tentativo (del resto, come si è detto, preceduto da conformi dichiarazioni) di impedire che la decisione spieghi tutti i suoi effetti: è evidente, infatti, che i destinatari del provvedimento di urgenza sono proprio quei soggetti che avrebbero altrimenti avuto pieno diritto alla reintegrazione delle somme illegittimamente sottratte per effetto della norma dichiarata incostituzionale;
Che l’art. 1 del d.l. n. 65 dispone che la rivalutazione automatica di cui all’art. 34, co. 1, l. n. 448/1998, diversamente da quanto discende come effetto immediato dalla pronuncia demolitoria della Consulta, sia riconosciuta, in via decrescente, soltanto ad alcune fasce di titolari di pensione, sino al limite massimo del quintuplo del trattamento minimo Inps, individuate, peraltro, “in funzione dell’importo complessivo di tutti i trattamenti pensionistici in godimento, inclusi gli assegni vitalizi derivanti da uffici elettivi”: viceversa la sentenza aveva precisamente individuato proprio nella suddetta limitazione ad alcune fasce di pensionati, individuati in base al trattamento complessivo e non, invece, alla fascia di importo, due profili di illegittimità costituzionale, che il Governo viceversa reitera pervicacemente e, soprattutto, illegittimamente e illecitamente;
Che, dopo aver negato la restituzione delle somme dovute, con i relativi accessori, imposta invece dalla sentenza costituzionale, il Governo ne contrasta ulteriormente l’efficacia inserendo all’art. 24 d.l. n. 201/2011 il co. 25 bis, in forza del quale “la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici, secondo il meccanismo stabilito dall’articolo 34, comma 1, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, relativa agli anni 2012 e 2013 come determinata dal comma 25, con riguardo ai trattamenti pensionistici di importo complessivo superiore a tre volte il trattamento minimo Inps è riconosciuta: a) negli anni 2014 e 2015 nella misura del 20 per cento; b) a decorrere dall’anno 2016 nella misura del 50 per cento: ciò significa che, oltre alla vanificazione dell’effetto primario della decisione – che dovrebbe consistere nell’integrale applicazione, per gli anni 2012 e 2013, del regime di rivalutazione paralizzato dal d.l. n. 201/2011, ma che viene, invece, sostituito dal nuovo co. 24 dell’art. 25 d.l. n. 201 cit. – si determina il consolidamento (si direbbe una “capitalizzazione negativa”) del danno patito dagli aventi diritto, perché la pur ridotta restituzione delle somme di competenza degli anni 2012 e 2013 concorre soltanto in misura molto diminuita alla formazione della base di calcolo delle rivalutazioni successive.
Suscita allora perplessità e qualche inquietudine che il Presidente della Repubblica – fine giurista ed ex Giudice costituzionale – non sia intervenuto, facendo uso delle prerogative che gli spettano, per impedire che venisse inferta una così profonda lesione agli atti, agli organi e alle funzioni costituzionali, benché competa a lui la garanzia del cosiddetto indirizzo politico costituzionale e, quindi, a maggior ragione di impedire che quello di maggioranza se ne discosti: né pare possa bastare un richiamo alla buona regola di “relazioni vicendevolmente rispettose”.
Siamo insomma di fronte a un caso preoccupante che, al di là della pur gravissima portata a danno di situazioni giuridiche consolidate – sulla quale ci si soffermerà di qui a poco – mostra all’evidenza l’attitudine dell’esecutivo a effrangere gli atti che la Corte compie come organo di chiusura dell’ordinamento, quasi per esercizio arbitrario delle proprie presunte ragioni.
Caso di ancor più eclatante rilievo perché – come la stessa Corte ha ben segnalato, puntualmente censendo i principi e le norme concernenti la questione ad essa sottoposta – la disciplina della previdenza è strettamente legata a elementi fondanti e identificativi del nostro ordinamento, essendo un corollario indefettibile del principio lavoristico e delle disposizioni che da questo si dipartono, innervando tutta la trama della Carta costituzionale.
Il rapporto di lavoro dipendente (ma, per quanto qui rileva, discorso non dissimile può farsi con riferimento al lavoro autonomo) è, infatti, normato a livello costituzionale, anche per quanto riguarda i suoi contenuti economici, sia in corso di svolgimento (l’art. 36 Cost. dispone, com’è noto, che il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro prestato e, comunque, sufficiente a garantire, costantemente, a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa, con un implicito rinvio alla contrattazione collettiva, che stabilisce i livelli salariali minimi), sia successivamente alla cessazione del sinallagma contrattuale col datore di lavoro. Dopo tale momento, il rapporto prosegue con l’ente erogatore del trattamento pensionistico, che deve provvedere al tendenziale mantenimento del trattamento retributivo in costanza di rapporto, così realizzando la fattispecie classica della retribuzione differita.
Non si dimentichi peraltro che i contributi previdenziali, che in diverse percentuali gravano sul datore di lavoro e sui lavoratori vengono decurtati da quella che sarebbe la retribuzione lorda spettante al lavoratore. In altre parole, i contributi sono una quota della retribuzione, sottratta all’immediata disponibilità del lavoratore e trasferita all’Ente previdenziale come provvista per l’erogazione del trattamento pensionistico: ricostruzione che trova oggi conferma nel sistema di determinazione del trattamento pensionistico su base contributiva. Detto brutalmente, si tratta di danaro del lavoratore.
Ora è chiaro che, avendo natura retributiva, la misura del trattamento pensionistico deve rispondere agli stessi criteri ai quali è vincolata la retribuzione in costanza di rapporto: agli scatti stipendiali corrisponde quindi l’indicizzazione delle pensioni, conformemente del resto alla disciplina dei rapporti di durata. Il testuale riferimento, nell’art. 38, co. 2, Cost. da un lato alla previdenza e, dall’altro, al rapporto di adeguatezza dei mezzi rispetto alle esigenze personali del lavoratore, impone infatti che il trattamento in parola sia preservato da quelle variazioni economiche che possano determinarne un decremento del valore.
Tanto ciò è vero che il sistema previdenziale vigente, ormai da lunghissimo tempo, contempla meccanismi di adeguamento delle pensioni al costo della vita, che, almeno a partire dal 1992 – come esattamente rileva la Corte – hanno sempre fatto riferimento alla evoluzione del livello medio del tenore di vita nazionale, in corrispondenza, può aggiungersi, con il disposto dell’art. 4 Cost., a mente del quale i cittadini oltre che il diritto, hanno altresì il dovere di lavorare per contribuire al progresso materiale e spirituale della Nazione.
La Corte costituzionale si è mossa esattamente all’interno del suddetto perimetro normativo e di principio: ha infatti accolto le questioni incidentali sollevate con riferimento agli artt. 3, 36, co. 1, e 38 Cost.
Dopo aver attentamente ricostruito l’evoluzione normativa relativa ai meccanismi di perequazione automatica, sottolineando il loro progressivo tendere ad assicurare integralmente tali garanzie solo alle fasce reddituali più basse, ritenendo quelle più alte – benché in deroga agli artt. 3, co. 1, 36 e 38 Cost. – dotate di maggiore resistenza alle dinamiche inflazionistiche, la motivazione rammenta che, in occasione dello scrutinio di costituzionalità di una misura di azzeramento della perequazione, limitata però ai trattamenti più elevati (art. 1, co. 19, l. n. 247/2007), la Corte, con la sent. n. 316/2010, aveva “indirizzato un monito al legislatore, poiché la sospensione a tempo indeterminato del meccanismo perequativo, o la frequente reiterazione di misure intese a paralizzarlo, entrerebbero in collisione con gli invalicabili principi di ragionevolezza e proporzionalità”, affermando che “le pensioni, sia pure di maggiore consistenza, potrebbero non essere sufficientemente difese in relazione ai mutamenti del potere di acquisto della moneta”.
La Consulta ha poi messo in luce e ragionatamente stigmatizzato i caratteri di singolarità dell’art. 24, co. 25, d.l. n. 201/2011, messo a raffronto sia con le indicazioni offerte dalla giurisprudenza costituzionale, sia con disposizioni di analogo fine precedenti e successive a quelle oggetto del sindacato che qui interessa, facendo così emergere pienamente i vizi di eccesso e di sviamento della funzione normativa primaria.
La norma del 2011, per ben due anni, incide sui trattamenti complessivi e non sulle fasce di importo, in tal modo discriminando, senza alcuna ragione, i soggetti percettori di pensioni superiori al triplo di quello minimo Inps (salvo il limitatissimo correttivo per la sola ipotesi dei trattamenti superiori al triplo, ma inferiori a tale limite incrementato della quota di rivalutazione automatica spettante), i quali, anche per gli ammontari inferiori al suddetto limite massimo, non beneficiano di alcun adeguamento, in spregio del principio di eguaglianza, oltre che del diritto ex art. 38, co. 2, Cost., e con un intento che parrebbe punitivo della loro condizione di maggior agio, benché essa discenda dal rapporto di lavoro e dalla contribuzione versata.
Il compendio della giurisprudenza costituzionale in materia – afferma giustamente la Corte – traccia “un percorso coerente per il legislatore, con l’intento di inibire l’adozione di misure disomogenee e irragionevoli”, poiché la discrezionalità del legislatore nello stabilire il quantum del trattamento pensionistico non può ridondare in aggiramento della perequazione che si impone, invece, al legislatore medesimo in forza dei principi di sufficienza della retribuzione di cui all’art. 36 Cost. e di adeguatezza di cui all’art. 38, co. 2, Cost.
Il Giudice delle leggi riafferma la natura di retribuzione differita propria del trattamento di quiescenza e, pertanto, la cogenza del parametro della proporzionalità alla quantità e alla quantità del lavoro prestato e, conseguentemente, della ridetta adeguatezza, che deve sussistere non solo al momento del collocamento a riposo, bensì per tutta la durata, avuto riguardo ai mutamenti del potere di acquisto della moneta: esigenze che si fanno ancor più pressanti – nota ancora la Corte – “quanto più si allunga la speranza di vita e con essa l’aspettativa, diffusa fra quanti beneficiano di trattamenti pensionistici, a condurre un’esistenza libera e dignitosa”.
Pur volendo concedere che ciò non implichi l’automatica e integrale coincidenza tra il livello delle pensioni e l’ultima retribuzione, nondimeno il legislatore è tenuto a dettare una disciplina del trattamento pensionistico che, tenendo conto delle risorse finanziarie disponibili (ma, deve aggiungersi, senza obliterare il fatto che, tanto più con il sistema contributivo, l’erogazione del trattamento pensionistico configura la corresponsione di quanto a suo tempo e per tutta la durata del rapporto di lavoro è stato a tal fine decurtato dalla retribuzione), garantisca ragionevolmente la tendenziale corrispondenza tra andamento delle pensioni e delle retribuzioni e, comunque, “la perdurante adeguatezza” delle prime “all’incremento del costo della vita”.
In tale contesto, i provvedimenti normativi che siano intesi a diminuire o a escludere l’applicazione dei meccanismi di rivalutazione automatica, non soltanto devono basare su imperative motivazioni di interesse generale, ma devono contenersi in periodi di efficacia ristretti – tenuto conto anche della maggiore o minore prossimità di consimili interventi – e devono rispettare i canoni di ragionevolezza e di proporzionalità, nel concreto contenuto metodologico attribuito loro dalla Corte costituzionale.
L’effetto di tali misure – osserva la Corte – è sempre definitivo, perché la perdita del potere di acquisto, anche per periodi limitati di tempo, incide sulle successive rivalutazioni, che saranno calcolate sull’ultimo importo nominale e “non sul valore reale originario”: esse privano, insomma, il titolare di un bene che gli spetterebbe e che è funzionale a essenziali necessità della persona, colpendo, come aveva acutamente rilevato uno dei Giudici remittenti (la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Emilia-Romagna), redditi ormai consolidati nel loro ammontare, legati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile ridisegnare sul piano sillagmatico il rapporto di lavoro.
Nel caso di specie mancavano esemplarmente i requisiti additati dalla Corte costituzionale, facendo difetto sia le motivazioni di interesse generale – soltanto evocate e non dimostrate, neppure nel corso del procedimento di conversione – la durata era biennale e, soprattutto, un’intera categoria di cittadini veniva esclusa dall’adeguamento per l’intero importo del trattamento percepito.
La Consulta, peraltro – privando di fondamento le motivazioni che hanno indotto il Governo a mantenere l’odioso privilegio della discriminazione di tale categoria di cittadini – non ha affatto limitato le censure di incostituzionalità con riferimento alle sole fasce più deboli: né del resto sarebbe stato logicamente possibile, dal momento che i giudizi a quibus erano stati promossi proprio da soggetti beneficiari di trattamenti superiori al triplo del minimo Inps.
Ben diversamente, Essa ha affermato che “l’interesse dei pensionati, in particolar modo di quelli titolari di trattamenti previdenziali modesti, è teso alla conservazione del potere di acquisto delle somme percepite, da cui deriva in modo consequenziale il diritto ad una prestazione previdenziale adeguata”.
Appare, dunque, paradossale che il ministro dell’Economia imputi alla Corte di non aver prestato leale cooperazione all’azione di governo, tradotta nel d.l. n. 201/2011, come se la funzione del Giudice delle leggi fosse altra e diversa da quella di giudicare, per l’appunto, se una disposizione legislativa sia o non conforme alle norme, ai principi e ai valori costituzionali.
Ben più che un difetto di cooperazione, invece, va ravvisato nel comportamento normativo del Governo che, invece di prestare la doverosa e dovuta ottemperanza alla pronuncia costituzionale, col d.l. n. 65/2015 ne ha sostanzialmente vanificato gli effetti, creando le premesse per l’insorgenza di un massiccio contenzioso che approderà inevitabilmente, ancora una volta, a Palazzo della Consulta. Ed è perfino irridente che il d.l. n. 65/2015 proclami di voler dare attuazione a una sentenza che, invece, viene sostanzialmente ignorata, così come irridente è l’opinione di chi pronostica che i ricorsi resi inevitabili dal decreto di sedicente ottemperanza alla pronuncia della Corte serviranno solo ad arricchire gli avvocati.