Signori abbiamo scherzato, tutto da rifare. I creditori internazionali, Fmi in testa, hanno bocciato il piano presentato dal governo greco per trovare un accordo che sblocchi l’ultima tranche di aiuti da 7,2 miliardi e Alexis Tsipras è esploso. Il premier greco ha infatti aspramente criticato le obiezioni avanzate dai creditori di Atene in merito alle proposte di riforme necessarie, attaccando «l’insistenza di certe istituzioni nel non voler accettare misure equivalenti». Parlando con alcuni membri del suo governo, Tsipras ha criticato il trattamento di alcuni paesi nei confronti di Atene: «Non è mai accaduto prima che non si approvassero misure compensative, né in Irlanda né in Portogallo», ha twittato il premier ellenico. Concludendo con un nemmeno troppo criptico, «ciò significa due cose: o non vogliono l’accordo o sono al servizio di interessi specifici in Grecia».
A stretto giro di posta, prima che iniziasse l’Eurogruppo di ieri sera (l’ora non ci ha consentito di seguirlo, ndr), fonti Ue hanno confermato le tensioni – «Le posizioni sono ancora lontane, non ci sono stati molti progressi» – e anche il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, come già annunciato da Christine Lagarde dopo il vertice di lunedì sera, aveva ammesso che «resta molto lavoro da fare». Al netto di quanto potrà essere successo nel corso della scorsa notte e quindi con la possibilità che questa mattina, prima di leggere questo articolo, il tg vi abbia informato che invece l’accordo è stato raggiunto, ragioniamo su alcuni punti che potrebbero offrire un significato più profondo e inquietante alle parole di Alexis Tsipras sopra riportate.
Primo, cosa conteneva il piano greco rigettato dai creditori? Essenzialmente due numeri, i quali hanno immediatamente fatto alzare le barricate del Fmi: misure complessive per 7,9 miliardi di euro, 7,3 dei quali ottenuti da innalzamento di tasse e contributi per la previdenza sociale. Pensioni? Zero, se non un vago richiamo a un disincentivo per chi volesse andare in pensione prima del tempo. E su questo punto, il Fmi era stato molto chiaro fin da subito attraverso il suo capo economista, Olivier Blanchard, il quale aveva riassunto in questo modo il vero nodo del contendere: «Pensioni e stipendi pesano per il 75% della spesa primaria greca, mentre il rimanente 25% è già stato tagliato fino all’osso. La spesa pensionistica pesa per il 16% del Pil greco e i trasferimenti dal budget statale al sistema pensionistico sono vicini al 10% del Pil. Noi pensiamo che sia necessario un riduzione della spesa pensionistica dell’1% del Pil (sul 16%), operazione per fare la quale si potrà comunque continuare a proteggere i pensionati al minimo». Insomma, il Fmi voleva interventi sulle pensioni e non aumenti di tassazione, se non l’Iva, e questo Tsipras lo sapeva bene: quindi, presentando quel piano, sapeva che il Fmi l’avrebbe bocciato. Non è forse lui, allora, a giocare uno strano gioco?
Secondo, questi due grafici ci dicono che i mercati prezzavano già martedì la bocciatura. Il primo ci mostra come da inizio settimana (lunedì e martedì) l’indice benchmark di Atene fosse salito del 16%, esattamente la stessa dinamica accaduta prima dei crolli di dicembre 2014 e febbraio e maggio di quest’anno. Insomma, chi investe seriamente sta speculando sul breve, sapendo che la situazione è tutt’altro che risolta e risolvibile con questi pannicelli caldi. Il secondo grafico, invece, ci mostra come nello stesso arco temporale i bond bancari greci abbiano si recuperato qualcosa, ma al di sotto dei massimi della settimana precedente: sintomo che il mercato sa che quelle banche sono fallite senza i soldi dei fondi Ela.
Terzo, il Paese è ormai fuori controllo. Solo nel mese di maggio è mancato, rispetto a quanto programmato, 1 miliardo di euro in entrate fiscali, sintomo che i greci stanno seguendo l’esempio del loro governo: non pagano e aspettano. Tanto più che la decisione dell’esecutivo di congelare i pagamenti ai fornitori della Pubblica amministrazione non è stato proprio un esempio edificante. In un servizio del Financial Times, scopriamo che ormai il pagamento business-to-business in Grecia non esiste più, vige la regola dell’assegno post-datato che, viste le scadenze, appare più una cambiale. E, cosa ancora più inquietante, il 70% dei mutui erogati è a rischio default dopo la loro ristrutturazione, visto che le dichiarazioni del governo a difesa proprietari di casa meno abbienti ha portato questa vasta platea di greci a pensare che i pignoramenti riguarderanno solo le ville.
Quarto, anche la Grecia qualche ragione ce l’ha. Ora, al netto dei minuetti in atto a Bruxelles, chi decide sa che la Grecia ha bisogno di un terzo programma di salvataggio e lo ha anche quantificato: circa 35 miliardi di euro, il cui esborso comincerà ad accordo fatto. Il problema, però, è un altro: dove andrà a finire quel denaro, prendendo come esempio quanto accaduto nel 2011? Ce lo mostra il primo grafico a fondo pagina, dal quale desumiamo che dei 226,7 miliardi sborsati alla Grecia fin dal primo bail-out (circa il 125% del Pil greco dello scorso anno), l’allocazione combinata per le esigenze operative dello Stato era dell’11% del totale, circa 27 miliardi.
E il resto? Tutto il resto è andato in rimborsi alle varie entità creditrici, Fmi e Bce in testa. Pensate stavolta sarà diverso? Guardate il secondo grafico, il quale ci mostra i rimborsi – tra interessi e maturazioni obbligazionarie – che Atene dovrà onorare da oggi a dicembre. Quindi, se anche ci fosse un terzo salvataggio da 35 miliardi, alla Grecia come Paese resterebbero poco più di 3 miliardi: abbiamo forse risolto qualcosa, tanto più che anche quei 3 miliardi non finirebbero nell’economia reale e nel credito, ma in pagamento di pensioni e stipendi statali? Cosa si vuole fare, andare avanti a colpi di salvataggi, facendo aumentare sempre di più lo stock di debito di fatto inesigibile greco, fino a quando Atene non avrà finito il collaterale, riserve auree incluse? Una ristrutturazione del debito serve, sono il realismo e l’onesta intellettuale ed economica a imporla. Ma servono anche riforme serie e Tsipras dovrebbe ammetterlo.
Quinto, ovvero il possibile scenario “complottista” che potrebbe ammantare di oscuro presagio le parole di Tsipras contro i creditori che non vogliono l’accordo. Al netto del fatto che questo tira e molla sta indebolendo e dividendo Syriza, con il forte rischio di elezioni anticipate dalle quali Tsipras uscirebbe con le ossa rotte, l’extrema ratio di un default greco potrebbe essere utile anche a un’altra finalità, oltre a quella della Bce di cui vi ho parlato ieri. Insomma, per capirci: se la Grecia saltasse e inviasse uno shock di contagio ai mercati europei, chi potrebbe salvare l’Ue intervenendo? La Fed con i soldi dei contribuenti statunitensi, nessun altro potrebbe (vedo l’ipotesi Cina o Russia come impraticabile per varie ragioni). E cosa dovrebbe fare però la Fed per operare in maniera risolutiva in uno scenario d’emergenza simile? Un bel Qe4, con annesso rinvio sine die dell’aumento dei tassi.
D’altronde, se anche l’Europa ha l’euro, un sacco di debito è denominato in dollari, visto che è moneta di riserva globale e ha un mercato molto più liquido che invoglia molte aziende europee a fare business in biglietti verdi. Quando arriva una crisi, come quella che potrebbe innescare un default di Atene, le aziende hanno bisogno di dollari, ma avendo le banche europee una fornitura limitata, una volta terminata la quale non esiste un’entita che può stamparne altri, ecco che entra in scena mamma Fed attraverso le swap lines.
Cosa sono? Niente più e niente meno che un accordo tra la Fed e una Banca centrale estera, nel caso in esame la Bce, di operare swap su valuta, ovvero la Fed crea nuovi dollari, la Bce nuovi euro e si accordano per scambiarseli per un periodo di tempo, nel corso del quale le due entità detengono quel denaro (nel caso della Bce per rifornire le banche perché il business Ue possa onorare i suoi pagamenti in dollari). Quando lo swap si esaurisce, la Fed manda gli euro avanzati alla Bce, l’Eurotower fa lo stesso con i dollari e le swap lines tornano a zero.
Pensate che da quando è iniziato la crisi finanziaria, le swap lines sono salite fino a 600 miliardi di dollari, come ci mostra il grafico a fondo pagina. Il problema è di non sottostimare la portata dell’evento scatenante la crisi, in questo caso il default greco e il suo contagio, altrimenti si finisce come a metà 2007, quando l’House Financial Services Committe Usa ridimensionò un pochino il caso Bear Stearns, parlando di «piccole difficoltà»: come sia andata a finire, lo sapete da soli.
Ora, guardate l’ultimo grafico sempre relativo alle swap lines, questa volta però curato dalla Fed di St.Louis (St. Louis Fed’s charts and data on swap lines) e con una parte sottostante che mostra i volumi delle swap lines. Il grosso è concentrato tra il 2008 e il 2010, il post-Lehman ma vediamo un più piccolo ma significativo aumento nella prima fase di riacutizzazione della crisi greca nel 2012. Quest’anno non ci sono state swap lines, ma alcuni blip si sono registrati ad aprile e, più significativo, uno questa settimana per l’ammontare minimo di 114 milioni di dollari. Briciole rispetto al diluvio degli anni scorsi, ma è un indicatore del fatto che la Fed tenga le antenne dritte rispetto al caso greco: insomma, più che a quanto accade – ma, soprattutto, si dice e non dice – a Bruxelles, per capire qualcosa della pantomima greca toccherà tenere d’occhio il dato sulle swap lines della Fed. Se salgono, tanto e in breve tempo, allacciate le cinture di sicurezza.