Oggi non è venerdì. Oggi come ieri, nei pensieri della gente è già lunedì. Questo salto nel tempo è accompagnato dall’angoscia di chi voterà “sì” o dalla sicurezza di chi voterà “no”. È un voto che spacca verticalmente il Paese. Spacca famiglie e rapporti sociali. A scorrere le bacheche di Facebook ci si rende conto che è in atto una “lotta” senza tregua tra i due schieramenti. Ha senso questo referendum su cui si pronuncia oggi il Consiglio di Stato circa la sua costituzionalità? La domanda ai giudici della Corte è stata rivolta da due semplici cittadini (un avvocato e un ingegnere). Ecco una delle meraviglie di questo popolo. Riportiamo al riguardo un ragionamento ponderato: “Diciamo le cose come stanno: se si va al referendum, la consultazione sarà sull’euro. E penso sia ingiusto mettere il cittadino greco di fronte a questo dilemma con un sì o con un no”. L’analisi è del ministro delle Finanze Yanis Varoufakis, in tempi in cui lui era convinto che le tattiche elleniche del ping-pong avrebbero piegato la rigidità degli europei.



Qualunque sia il risultato, lunedì sarà un giorno che passerà negli annali di questo Paese. Tanta storia ha prodotto, ma in parte non l’ha digerita, tantomeno elaborata. In pochi ci hanno fatto caso. Il referendum è stato indetto il giorno 28. Il 28 (dell’ottobre 1940), il dittatore ellenico, l’emulatore dell’italico duce, Ioannis Metaxas, dopo aver ricevuto alle 3 di mattino il nostro Ambasciatore Grazzi (lo fece accomodare su una poltrona che da allora non venne mai più usata) e aver letto l’ultimatum di Mussolini, disse, come Tsipras oggi ,”No”. Quella data che dà il via alla nostra poco virile guerra in Grecia  è diventata festa nazionale. Un caso unico  nella storia delle nazioni. 



In questa scelta, come in altre, i greci spesso stupiscono per il loro coraggio. Ma fa parte della loro storia, sono le loro radici, sono le loro tradizioni fittamente intrecciate sia al senso di coesione culturale che al senso di oppressione subita per tre secoli dagli ottomani. Alcuni avvenimenti del passato per i greci sono ancora oggi vivi.  

Ad esempio, la catastrofe del ’22, quando le truppe elleniche entrarono in Turchia per occupare i territori abitati dai greci, è ancora fresca nei ricordi dei sessantenni, i cui nonni vivevano chi a Smirne, chi a Pergamo, chi a Trebisonda, chi a Costantinopoli, chi in Cappadocia. Arrivarono in Grecia con una valigia, pochi spiccioli e una vita da ricostruire. Migliaia di loro, gente di mare, venne ricollocata in sperduti villaggi di montagna. Ancora negli anni Sessanta, fratelli cercavano sorelle e famigliari dispersi nel grande esodo dalle coste dell’Asia Minore, e ogni giorno la radio dell’esercito trasmetteva l’elenco delle persone che cercavano i propri parenti dispersi. O i ricordi delle violenze della guerra civile, o ancora il carcere duro per gli avversari dei colonnelli. Erano gli anni Settanta: la Grecia viveva un suo dramma separata dal resto dell’Europa.



Se si volge lo sguardo soltanto al secolo scorso, tutte le profonde spaccature verticali della società provocate da profondi conflitti politici hanno prodotto improvvisi cambi di paradigma. Nel periodo 1919-1922 (periodo ricordato come il “grande scisma”), il conflitto tra lealisti e repubblicani con il Paese spaccato a metà, con due capitali: Atene con il Re, Salonicco con il primo ministro Venizelos, portò l’esercito ellenico in Anatolia dove venne sconfitto da Ataturk. Il Paese venne invaso da più di un milione di profughi greci dell’Asia minore, cambiando i suoi equilibri sociali  ed economici. Nel 1946,  quando i comunisti, dopo aver deposto le armi, insorsero e diedero inizio alla guerra civile che portò il Paese sull’orlo del baratro e all’ostracismo del partito comunista, e aprì delle incisioni profonde nel tessuto politico che si rimarginarono soltanto dopo la caduta dei colonnelli. Nel periodo 1965-1967, quando la disputa di potere tra il Palazzo e il vecchio Papandreou si concluse con il colpo di stato di Papadopoulos.

Purtroppo, la tradizione ci dice  che il sistema politico ellenico non possiede la virtù della dialettica e del dialogo: “O con me o contro di me”. Neppure cinque anni di crisi hanno cambiato i rapporti tra gli schieramenti. Chi ha governato la crisi, ha governato da solo, senza stabilire alcun dialogo politico con l’opposizione, un dialogo che fosse in grado di elaborare una strategia comune per il Paese (Portogallo docet). Tutti e tre i primi ministri della crisi, Papandreou, Samars e ora Tsipras, si sono appellati al senso patriottico dei greci. Ma era pura demagogia  perché le ferite della crisi le hanno subite tutti, a destra come a sinistra.

Con amarezza, perché su lui si puntava (greci ed europei) per un riavvio del Paese, va ammesso che il giovane Alexis Tsipras passerà alla storia con il suo nome stampato in grassetto. Privilegio che non avranno i suoi due predecessori. È vero sono stati loro a preparare il terreno per questo cambio di paradigma, ma è Tsipras ad averlo redatto il 28 giugno e protocollato domenica 5 luglio.

 

P.S.: Se il governo sosteneva –  fino a mercoledì e stando anche alle dichiarazioni di Varoufakis di ieri mattina – che le banche avrebbero aperto martedì prossimo, ieri pomeriggio il ministro Nikos Pappas ha chiarito che le banche apriranno quando verrà firmato l’accordo.  Con tutta la buona volontà da entrambe le parti, le procedure per il nuovo accordo dureranno almeno due settimane perché le discussioni partiranno da zero, o almeno non prima del 20 luglio, giorno in cui la Grecia deve pagare 3,5 miliardi alla Bce. Anche ieri mi sono messo in coda per ritirare la mia dose giornaliera di “metadone” (60 euro, si chiede scusa per il parallelo, ma che almeno ci salvi l’ironia). Le banconote da 20 euro erano esaurite, così il bancomat mi ha comunicato che potevo ritirare una banconota da 50 euro. Quei 10 euro rimanenti che mi spettavano non si aggiungeranno ai 60 euro di domani.  Mi domando quando finirà la carta-moneta. 

Altre notizie spicciole. Ieri sono stati riassunte circa 1500 persone. Il nuovo presidente dell’azienda petrolifera a controllo statale Elpe (nominato dal governo Tsipras e voluto fortemente dal ministro per l’energia Panagiotis Lafazanis, per capirci il “dracmista” più convinto) ha deciso di aumentare il suo stipendio annuale di 110 mila euro, portando l’importo da 170 a 280 mila euro. Quattro deputati di “Greci Indipendenti”, l’altro partito della coalizione, hanno pubblicamente dichiarato che voteranno “sì”. Uni di loro è stato “cancellato” dal partito e invitato a dimettersi. Il suo leader, il ministro della Difesa, Panos Kammenos, in simbiosi con il suo ruolo ha commentato: “Siamo in guerra e noi non facciamo sconti”. 

In un messaggio televisivo, l’ex primo ministro Kostas Karamanlis (il primo demiurgo della crisi economica) si è espresso per il “sì”. Uno stralcio del suo intervento: “Sicuramente l’Unione europea ha parecchie debolezze nel suo funzionamento. E forse i nostri alleati hanno commessi grossi sbagli nell’affrontare la crisi. Sicuramente sbagli li abbiamo commessi anche noi”. Soltanto due considerazioni “tecniche”. La prima: prima ha parlato degli sbagli “europei” (21 parole), poi dei “nostri” sbagli (7 parole). Dei suoi, quale primo ministro senza spina dorsale – nei sei anni di governo, ha ingigantito il settore pubblico e sfarinato l’economia privata – neanche una parola, a meno che non usasse il “pluralis maiestatis”. Tutto secondo tradizione dei politici. Ho cercato una notizia, questa confermata poi dai fatti: un noto astrologo, a giugno, scrisse: “A luglio sono previste delle difficoltà per il Paese”.

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