Il 74% dei greci aveva una immagine “positiva” del primo ministro. Dati di metà giugno. È un’ipotesi, ma se Tsipras avesse indetto il referendum quando ricevette la contro-proposta Juncker (cinque pagine da cui traspariva, neanche in filigrana, la rigidità delle posizione dei creditori, leggi tedeschi), quel 74% avrebbe risposto “no”. Tsipras, con questa percentuale, avrebbe avuto il tempo necessario per piegare gli europei, strappare condizioni migliori e avere il consenso dei greci per attuare le nuove misure di austerità, da lui stesso proposte, e infine rivoltare il Paese dalle fondamenta. Con in aggiunta, la sicura prospettiva di essere il padrone della scena politica ellenica per almeno due legislature. Lunedì prossimo, quale sarà la valutazione sul primo ministro?
Il referendum di domani, invece, è arrivato fuori tempo massimo. Costringerà i greci a votare con la pancia, l’incertezza e la rabbia. L’ha ammesso anche il ministro Efklidis Tsakalotos, il capo della delegazione nelle trattative, nel corso di una intervista al canale televisivo Skai. Un economista serio, pacato, l’unico fino a oggi che, di fronte alle domande incalzanti dei giornalisti, ha spiegato le ragioni del “no”, senza tratti demagogici, senza alzare i toni o alzarsi e andarsene. Convincente anche per gli indecisi. Tuttavia la sua indiscussa onestà intellettuale lo ha portato ad ammettere, alla CNN, che “la proposta delle istituzioni non è una soluzione sostenibile […]. Ciò significa che non avremmo potuto portarla in Parlamento perché non sarebbe stata votata e sarebbe caduto il governo. Per questa ragione abbiamo indetto il referendum, per lasciar decidere il popolo”.
Ha forse dato ragione al fronte del “sì”, che accusa Tsipras di aver voluto anteporre l’unità del partito e del suo governo agli interessi del Paese. Ma poi da quale pulpito viene la predica dei politici schierati a favore del “si”? Ridicolo è stato il messaggio dell’ex primo ministro Kostas Karamanlis (i suoi sei anni di finanza allegra e il suo “approccio morbido” alle riforme – mai avvenute – sono due cause dell’origine della crisi), patetico quello del vecchio (classe 1917) ex primo ministro per un breve periodo, Konstantinos Mitsotakis. In loro compagnia tutto il “gotha” della vecchia classe politica, sia socialista che conservatrice, per intenderci coloro che hanno portato il Paese alla rovina. Il referendum li ha ringalluzziti, si sono rifatti una verginità politica, e sono in attesa di eventi.
Fino a oggi, sabato, il garante più serio circa la sopravvivenza politica di Tsipras per il dopo-referendum è il suo avversario, il presidente di Nea Demokratia, Antonis Samaras, il candidato primo ministro nel 2012. Venne eletto perché promise la cancellazione del Memorandum. Poi fece una piroetta di 180 gradi. È un sogno a occhi aperti: poco prima del voto, Samaras in un messaggio televisivo annuncia che con la vittoria del “sì” lui si dimette. Aprirebbe gli orizzonti politici, qualora si dovesse arrivare a elezioni anticipate. Si dimetterà? Poco probabile. Aspetta la sua rivincita, ed è un tignoso.
Lo scrittore Petros Markaris è stato sintetico: dovremmo votare “ni”, cioè tra “il peggio e il meno peggio”. Per dire che lunedì si aprono le porte di un labirinto. Inutile descrivere i possibili scenari. Alexis Tsipras ha dichiarato che “quanto più forte sarà il no, tanto migliore sarà l’accordo”. Se invece vincerà il sì, ha spiegato, si avvieranno “le procedure perché diventi legge la proposta delle istituzioni”. E ha aggiunto: “Il giorno dopo saremo sulla stessa barca in cui entra acqua e dobbiamo salvarla”. Purtroppo, in questa settimana sulla barca si sta assistendo a una lotta per decidere chi deve remare e chi buttar fuori l’acqua.
Lunedì tutta questa asprezza di toni verrà dimenticata e si ritornerà alla normalità? E le banche apriranno? Questa è la domanda concreta che assilla la gente (non solo pensionati, ma buona parte del settore privato dell’economia, diciamo anche tanti fautori del “no”). Tsipras è stato chiaro: le banche apriranno quando verrà firmato il nuovo accordo. Intanto, Mario Draghi, aspetta un segnale da Bruxelles, che aspetta a sua volta un segnale da Atene, la quale aspetta un segnale da Berlino. Berlino consulterà gli altri governi?
Chi vincerà? Quasi tutta la stampa e i canali televisivi si sono schierati per il “sì”, persino gli alti gradi dell’esercito hanno preso pubblicamente posizione. Per il “no” la piazza, poco numerosa, e gli attivisti di partito. Le polemiche sono accese e i toni spesso volgari e personali. Un sondaggio, da prendere con beneficio di inventario, dice che il “sì” sarebbe in vantaggio. Governo e opposizione stanno valutando le prossime mosse. Panagiotis Lafazanis, il ministro “dracmista”, ha definito il referendum un “esperimento”. Stai a vedere, ma è un sospetto, che il governo di sinistra, ha sperimentato il “dogma dello shock” professato dall’economista liberista Milton Friedman: bisogna creare nella popolazione un senso d’insicurezza e di stress psicologico tale che qualsiasi decisione politica ed economica diventi accettabile.