L’articolo di oggi è un po’ diverso dal solito, quindi se non vi piacerà o vi annoierà vi chiedo scusa fin da principio, ma lo ritengo comunque un esercizio di riflessione interessante. Soprattutto, partendo da un presupposto: il referendum di domani ad Atene potrebbe non essere la pantomima che qualcuno dipinge. Anzi. Ma veniamo al contenuto. A Wall Street, ma anche nella finanza in generale, una dote vitale è la capacità di vendere qualcosa che è senza valore o, quantomeno, vendere a 80 ciò che vale 20 o 30. Lo fece Goldman Sachs quando vendette agli investitori Abacus 2007, mentre il fund manager John Paulson stava scommettendoci contro. Quest’ultimo pagò Goldman 15 milioni di dollari per spargere in giro quell’immondizia, che era nulla più che un cdo che avrebbe generato soldi quando milioni di persone avrebbero perso la loro casa. La Sec, sempre arzilla quanto un ghiro cui è stato somministrato Valium, condannò Goldman per frode e la costrinse a pagare una multa transata di 550 milioni di dollari: diciamo che era una frazione di quanto guadagnato imbrogliando.
C’è poi un altro modo di raggiungere lo scopo, questa volta legale e a cui gli investitori non sanno resistere. Si chiama la “Shubik’s Dollar Auction”. Di cosa si tratta? È uno schema creato nel 1971 da Martin Shubik, un professore di Yale e amico di John Nash, il guru della teoria dei giochi, due che nel tempo libero si divertivano a creare giochi che spesso e volentieri si rivelavano diabolici. Certo, i traders sono gente abituata al rischio, anche portato all’estremo e infatti molti sono ottimi giocatori di poker (meno di scacchi), ma la “Dollar Auction” porta l’avversione alla perdita al livello estremo. Il criterio è semplice e si basa su una sola regola: il secondo offerente all’asta da un dollaro deve pagare la sua scommessa per l’intero ammontare e non avrà alcun ritorno.
Prendete un gruppo numeroso di persone in una stanza e cominciate a scommettere. Inizialmente, eccitati dalla prospettiva di ottenere un dollaro con pochi penny, si scommette sempre di più. Nessuno si preoccupa di poter finire secondo scommettitore al termine, per il semplice motivo che ci sono così tante persone nella stanza. Ma quando le scommesse si avvicinano alla quota di 1 dollaro, cominciano a limitarsi e prosciugarsi. Si ha timore, qualcuno al massimo potrebbe arrivare a 1 dollaro di scommessa. A quel punto, non ci saranno nuovi scommettitori, ma qualcuno è sicuramente bloccato a quota scommessa di 99 centesimi, quindi potenzialmente a rischio di una perdita garantita di quel valore. Ma se scommette 1,01 dollari e vince, incorrerà solo in una perdita da 1 centesimo e guadagnerà un dollaro. Potenzialmente, il business migliore. Il problema è che questo ragionamento lo fa anche l’altro scommettitore rimasto e quindi faranno salire il prezzo continuamente in una gara di rilancio a due fino a che uno dirà stop e incorrerà nella perdita prima che questa diventi del tutto insostenibile per lui.
Statisticamente, non c’è limite su quanto possa salire la scommessa, quasi qualcosa di insano. Nel frattempo, il banditore dell’asta prende entrambe le scommesse e paga solo un dollaro. La metafora perfetta di Wall Street o qualsiasi altra piazza o logica finanziaria: mettere i clienti uno contro l’altro e incassare la commissione. Ma la mentalità che sottende la “Dollar Auction” non va rinchiusa soltanto nei recinti delle pratiche teoriche, perché pensandoci bene è la stessa che ha sotteso per un po’ il mercato obbligazionario post-crash e figlio dei vari cicli di Qe, soprattutto del terzo.
Proprio in risposta a quello che sembra un Quantitative easing senza fine e illimitato, gli investitori obbligazionari hanno infatti scommesso talmente sul prezzo dei bond da portarlo al punto in cui siamo oggi, ovvero a un investimento che incorpora una perdita certa fin dall’inizio. Il perché ce lo dice il grafico a fondo pagina, il quale ci mostra come il 16% dei bond governativi a livello globale abbia un rendimento negativo, un controvalore di 3,6 trilioni di dollari. Quindi, proprio come nella “Dollar Auction”, gli investitori obbligazionari temono di essere il secondo offerente e dover pagare il prezzo intero e portano così il mercato a livello di isteria.
Ora direte voi, cosa c’entra la Grecia? Non trovate delle similitudini nel gioco al rialzo su proposte e contro-proposte tra Commissione Ue e governo Tsipras? E chi ha portato l’asticella così in alto, finora? Il Fmi con il suo irrigidimento delle scorse settimane, il quale ora – casualmente – pare si sia sfilato dai giochi, lasciando il cerino in mano all’Europa e limitandosi a dire che valuterà la richiesta ellenica di posticipare ancora il pagamento mancato da 1,6 miliardi di dollari del 30 giugno. E quando diciamo Europa, non diciamo Juncker, bensì Germania e Bce. Non vi pare che l’indizione del referendum greco sia stata, di fatto, l’attraversamento del Rubicone di quota 1 dollaro da parte di uno dei due scommettitori rimasti? E il pronto rilancio di Juncker di martedì non è forse stata una scommessa a 1,02? E che dire della proposta notturna di Tsipras e del “no” arrivato mercoledì pomeriggio dall’Eurogruppo?
Stiamo parlando di Alexis Tsipras, uno che in cinque mesi di governo e di impasse della trattative con Bruxelles non ha mai fatto una proposta probabilmente nemmeno alla moglie e che nell’arco di 36 ore ne avanza, formalmente, almeno due (lasciamo perdere i contenuti, visto che tra le misure c’era la liberalizzazione dei centri fitness e benessere, presa in giro contenuta anche nel memorandum presentato alla fine della presidenza greca dell’Ue nel 2014 e copiata di sana pianta)? E il durissimo discorso dello stesso premier ellenico alla nazione, nel quale non solo confermava il referendum ma invitava con forza a votare “no” non è stato forse il rilancio a 1,05? E lo stop ai contatti fino referendum avvenuto imposto dalla Merkel e imposto dallo stesso Juncker, nonostante Hollande chiedesse di chiudere un accordo prima, non è stato l’1,06?
Unica differenza, ora sarà il popolo greco a decidere chi dovrà fare la prima mossa, ma la logica del rialzo potrebbe poi proseguire. Cosa farà Alexis Tsipras in caso dovesse vincere il “no” e si trovasse così mano libera nella sua personale “Dollar Auction” con l’Ue? E l’Ue, cosa farà? Rilancerà con un’altra proposta o accetterà di perdere la posta (il default greco e forse il Grexit) per non incorrere in una più grande tra qualche mese?
E ricordate, il ministro delle Finanze greco, Yanis Varoufakis, è un esperto di teoria dei giochi, un seguace di John Nash. Guarda caso, co-autore con Martin Shubik della “Dollar Auction”. Rifletteteci. E ricordate sempre a quali interessi fa storicamente riferimento il Fmi. Lo stesso organismo che giovedì – pur non intervenendo direttamente – ha casualmente fatto circolare un report preparato prima che la crisi greca precipitasse, nel quale si diceva non solo che Atene avrebbe bisogno di ulteriori 50 miliardi di euro di aiuti da qui al 2018, ma anche – e soprattutto – che servirebbe un altro haircut sul debito nel solco di quello del novembre 2012, tale da ottenere una taglio pari al 30% del Pil. Guarda caso, l’argomento principale dell’ultimo messaggio di Tsipras alla nazione, ieri pomeriggio.
Di fatto, il Fmi ha aperto il vaso di Pandora e fatto non si sa quanto involontariamente e incautamente campagna elettorale per il “No”. Vuoi vedere che la Lagarde, oltre a essere l’accelerante dell’incendio doloso in atto, è anche la banditrice d’asta?