La scorsa settimana ho cercato di dimostrarvi che il dato di crescita della Grecia nel secondo trimestre di quest’anno, +0,8%, era da addebitarsi unicamente a deflazione e spese anomale in anticipo sui controlli sui capitali. Oggi mi spingo un po’ oltre e cerco di dimostrare che al netto del nuovo pacchetto di aiuti, non solo non cambierà nulla, ma, anzi, la Grecia già oggi è in depressione. Il primo concetto è semplice, ne abbiamo parlato mille volte e lascio che sia il primo grafico a fondo pagina a esplicitarlo per l’ennesima volta: sono solo soldi buttati, ovvero l’illusione di un aiuto che andrà a incidere sull’economia reale del Paese per meno del 5% del totale, il resto sono partite di giro sulle scadenze e garanzie per non far fallire le banche del Paese.
Dopodomani il primo banco di prova, con la scadenza da 3,5 miliardi di euro nei confronti della Bce da rimborsare a ogni costo, onde evitare il default selettivo: tranquilli, casualmente i primi 26 miliardi degli 86 totali del terzo salvataggio, sono già arrivati. Quindi, sono in realtà già oggi 22,5, senza che il governo ellenico abbia ancora fatto nulla. Ma veniamo al secondo punto, ovvero al reale stato di salute dell’economia greca. Insomma, al netto delle proiezioni del Fmi che volevano il Pil greco al +2,8% quest’anno – cosa fumino a Washington non è dato a sapersi -, come si misura l’animal spirit della Grecia?
Cosa sia l’animal spirit è presto detto, è la celebre definizione di Keynes per indicare le diverse e imprevedibili motivazioni che spingono gli imprenditori a investire, ovvero un misuratore della crescita in tendenziale. Molti economisti ritengono che il migliore misuratore sia il Pil nominale, ovvero la produzione economica (Pil reale) a cui si somma l’inflazione. Di converso, se abbiamo il Pil nominale, sottraendo l’inflazione abbiamo il Pil reale. E cosa succede, però, se una nazione non ha inflazione ma deflazione, come è il caso attuale di Atene? Fin dalle scuole, tutti hanno un po’ timore nell’addizionare o sottrarre da un numero negativo: di fatto la formula sarebbe Pil nominale=Pil reale+ (-deflazione) o Pil nominale – (-deflazione)=Pil reale. Ma siccome più e meno uguale meno e meno e meno uguale più, questa logica è quella che ha caratterizzato le misurazioni per l’economia giapponese per anni e anni e ora funziona anche per la Grecia. Partendo dal +0,8% di crescita del secondo trimestre, se togliamo la deflazione, abbiamo il cosiddetto “animal spirit” della nazione. E vi assicuro, non è un bel vedere, come ci mostra il secondo grafico.
L’attuale tasso del Pil reale ellenico è +1,4%, peccato che il deflattore sia -1,5%, quindi la somma dell’animal spirit è -0,1%. Questa ratio matematica pura non include, però, il recente tonfo dell’economia greca e potrebbe essere stata portata così in alto proprio da quell’aumento dei consumi una tantum di cui parlavo prima, ovvero compro adesso visto che entro pochi giorni non potrò ritirare soldi dai bancomat o allo sportello. Il grafico, poi, ci mostra un prolungato periodo di Pil nominale negativo e questo è l’importante, ovvero la profondità del calo dell’animal spirit nominale: la Grecia non è il Giappone, è peggio. Nel movimento medio a 48 mesi dell’animal spirit è passata da un ottimistico +7% a -3%, uno scostamento di 10 punti percentuali dell’animal spirit, ovvero un’unica conseguenza: depressione conclamata dell’economia.
E a fronte di questa situazione macro, cosa chiedono i partner europei ad Atene in cambio del terzo salvataggio? Il pacchetto triennale prevede un deficit primario dello 0,25% del Pil nel 2015, seguito da un attivo primario dello 0,5% nel 2016, dell’1,75% nel 2017 e del 3,5% nel 2018: a Washington fumano roba pesante, ma a Bruxelles sono passati direttamente all’ecstasy! In compenso, in ossequio al nuovo memorandum d’intesa, il governo greco accelera sulla privatizzazione dei pezzi pregiati del sistema produttivo ancora nelle mani dello Stato: i porti del Pireo e di Salonicco e la ferrovia Trainose-Rosco, tutte aziende che interessano i cinesi della Cosco e per il Porto del Pireo anche la danese Maersk. L’agenzia greca per le privatizzazioni ha annunciato giovedì il termine per la presentazione delle offerte: ottobre 2015 per il Pireo, dicembre 2015 per la ferrovia e febbraio 2016 per il porto di Salonicco, la seconda città del Paese. L’accordo concordato dalla Grecia e dai suoi creditori, prevede le privatizzazioni di porti, aeroporti e rete elettrica per un totale di 6,4 miliardi di euro entro il 2017.
Più nel dettaglio l’accordo prevede l’impegno da parte di Atene a fare «passi irreversibili» entro ottobre per privatizzare l’operatore della rete elettrica Admie, su cui in passato c’erano state delle manifestazioni di interesse da parte della società italiana Terna e della società di trasmissione cinese, oppure a presentare misure alternative equivalenti. Insomma, si spolpa ma sono misure una tantum, non strutturali per la crescita: come al solito.
Ma sono tante le cose che non vi hanno detto sulla Grecia, molto il fumo che hanno gettato negli occhi dei cittadini-contribuenti europei. Una, ad esempio, potrebbe vanificare sul nascere tutti gli sforzi – per me già vani oggi – messi in campo da Atene e troika, stante anche la debolezza del governo Tsipras e la quasi certezza di elezioni anticipate in autunno. Gli imprenditori greci, infatti, stanno facendo di tutto per lasciare il Paese e proseguire il loro business all’estero, di fatto sottraendo occupazione e Pil. Philip Ammerman, nome poco ellenico ma nato in Grecia, è il co-fondatore dell’azienda di consulenza di investimento Navigator Consulting Group, gruppo che ha spostato la sua sede a Londra già nel 2010 e da qualche tempo è di fatto la persona più ricercata dai businessmen ellenici che vogliono espatriare o anche soltanto spostare i loro capitali al sicuro all’estero: «La cosa sta diventando di dimensioni epidemiche, non ho mai visto prima una pressione simile», ha dichiarato Ammerman a Cnbc lunedì scorso. Ma l’esodo è iniziato da prima del governo Tsipras e dei controlli sui capitali, visto l’endemico combinato tossico di depressione economica, corruzione dilagante, burocrazia elefantiaca e incertezza politica: pensate che la Coca Cola Hellenic, sussidiaria greca del gigante Usa, già nel 2012 ha detto addio alla Borsa di Atene per quotarsi a Londra. Lo stesso anno, la Fage, famosissima marca di yogurt greco, ha spostato il suo quartier generale in Lussemburgo, mentre la corporation Viohalco, industria pesante, si è trasferita a Bruxelles nel 2013.
La situazione è poi precipitata con i controlli sui capitali: in un sondaggio compiuto dall’organizzazione no-profit Endeavor tra il 13 e il 17 luglio scorsi, su 300 imprese greche il 23% aveva pianificato di spostare le sedi all’estero e un altro 13% lo aveva già fatto. Facile far vedere piazza Syntagna piena e parlare di collaborazione, orgoglio e solidarietà ellenica: la realtà è un’altra, l’economia reale del Paese, la parte produttiva, se ne sta andando e quindi il futuro è desertificazione, altro che memorandum d’intesa.
Ma ci sono altri numeri interessanti: tra il 2008 e il 2012, stando ad analisi comparate di 260mila dati fiscali e sul reddito compiute dal gruppo tedesco Imk, curate da due economisti greci e mai smentite da Atene, la parte più povera della popolazione greca ha perso circa l’86% del suo reddito, mentre quella più ricca solo tra il 17% e il 20%. E chi ha pagato di più? I dipendenti del settore privato, i quali hanno patito tagli occupazionali e decurtazione salariali in maniera ben più netta di quello del settore pubblico. Dal 2009 al 2013 stipendi e salari privati sono scesi, in diversi scaglioni, fino al 19%, ma ciò che fa impressione è che i tagli salariali reali sono stati enormemente gonfiati da governo e media, visto che non sono mai saliti oltre il 10%. C’è però un problema, visto che dal secondo trimestre del 2008 al secondo trimestre del 2014, il tasso di disoccupazione è salito dal 7,3% al 26,6% e nella fascia 15-24 anni ha avuto una media del 44%: peccato che contestualmente i pre-pensionamenti nel settore privato siano saliti del 14%, mentre in quello pubblico del 48%! La media per i dipendenti pubblici andati in pensione nel 2010 per timore di nuovi tagli salariali è stata di 25 anni di lavoro e contributi! In compenso, dall’inizio della cosiddetta austerity – visto che la ratio debito/Pil è continuata a crescere, quindi austerity ne vedo pochina – la tassazione diretta è salita del 53% e quella indiretta del 22%, un contributo fondamentale per consolidare il budget e imbellettare i dati da far vedere alla troika, peccato che questa dinamica abbia esacerbato le già presenti ineguaglianze sociali, al netto di un’azione pressoché nulla su evasione ed elusione fiscale e su rendite di posizione inaccettabili come la fiscalità agevolata per gli armatori.
Il carico fiscale per i cittadini più poveri, nel quadriennio, è salito del 337%, mentre per i cittadini greci più abbienti solo del 9%! In media, il reddito annuale di un cittadino greco pre-tasse è sceso da 23.100 euro nel 2008 a 17.900 euro nel 2012, una perdita di circa il 23% in quattro anni, ma quasi un cittadino ellenico su tre nel 2012 ha registrato un reddito annuo al di sotto dei 7mila euro! Insomma, per riassumere: il 10% più povero dei cittadini greci ha perso l’86% del reddito nel periodo 2008-2012, le classi subito superiori tra il 31% e il 51%, la cosiddetta classe media tra il 18% e il 25% e il 30% di tutti ci cittadini, ovvero i più abbienti, hanno perso solo tra il 17% e il 20%.
Non ci credete? Cliccando qui potete trovare lo studio tradotto in inglese. Cosa dite, non si è sbagliato tutto fin dall’inizio? E non si sta continuando a sbagliare grandemente? E i greci, non hanno la loro bella fetta di responsabilità per quanto accaduto? Vi lascio con una domanda: le percentuali che vi ho dato, come saranno cambiate tra il 2012 e il 2014?