I mercati parlano. E vogliono dirci qualcosa. Continua, infatti, il rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato: il Btp a 10 anni rende l’1,56%, dopo che giovedì si è allargato fino all’1,57%, ai massimi dallo scorso febbraio, mentre il differenziale di rendimento tra Btp e Bund decennali si attestava all’ora di pranzo a 140,289 punti base dai 137 della chiusura di due giorni fa. Si muovono gli spread, in punta di piedi ma si muovono. Per gli analisti di Unicredit, uno dei motivi dietro al movimento al rialzo dei costi di finanziamento sarebbe stata la lettura superiore alle attese del Pil del terzo trimestre della Gran Bretagna (è cresciuto dello 0,5% trimestre su trimestre dopo il +0,7% del secondo trimestre), la quale ha dimostrato come, almeno nell’immediato, l’impatto della Brexit non sia stato così negativo come atteso dal mercato e dai millenaristi del Remain. Di conseguenza, il dato positivo ha alimentato ulteriormente i dubbi del mercato su quanto ancora possa durare il supporto da parte delle Banche centrali.
«Il timore di un minor supporto da parte delle Banche centrali ha portato a un forte rialzo dei tassi governativi sia in area euro che negli Usa», ribadiscono anche gli analisti di Mps Capital Services a Cnbc, puntualizzando che «da un lato c’è l’attesa di un rialzo dei tassi Fed a dicembre, dall’altro la BoJ ha dichiarato che guarderà solo il tratto fino a dieci anni della curva. Allo stesso tempo, la Bce, in base ad alcune indiscrezioni, sta discutendo di una riduzione graduale del Qe, mentre si sono ridotte le probabilità di un taglio della BoE dopo i dati sul Pil migliori delle attese».
Ma proprio ieri Philip Lane, membro del Consiglio direttivo della Banca centrale europea e governatore della Banca centrale irlandese, ha assicurato che il grado di accomodamento continuerà finché l’inflazione non andrà verso il target della Bce (vicino ma al di sotto del 2%). Una cosa è certa, sulla carta: l’inizio dei negoziati formali sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea può danneggiare la fiducia dei consumatori e delle imprese. In particolare, se i negoziati andranno nella direzione di una forma di Brexit più rigida, questo potrebbe compromettere la fiducia di consumatori e imprese. «Mentre gli effetti potrebbero essere qualitativamente simili nel Regno Unito e nell’Unione europea, verosimilmente l’impatto sarà però asimmetrico, a causa del volume relativo delle due economie», ha riferito il banchiere centrale.
Dobbiamo davvero temere le minacce di Hollande per una trattativa dura? Non le teme nessuno, Hollande conta come il due di picche. Da tempo. Come non mi stanco di ripetervi da giorni, fino al 9 dicembre non succederà nulla: se qualcosa dovrà muoversi, sarà dopo la tornata elettorale in Italia e Austria e dopo la decisione di Draghi sul Qe. Prima sono schermaglie, le stesse che gonfiano sottotraccia e senza far rumore lo spread per preparare una bella campagna mediatico-terroristica a ridosso del referendum costituzionale del 4 dicembre: cosa ha detto, infatti, giovedì il ministro delle Finanze, Pier Carlo Padoan? «Le elezioni e i referendum non sono una cosa nuova, ma oggi sono percepiti come capaci di innescare effetti sistemici, come accaduto con la Brexit». Accidenti a questa dannata democrazia che manda, ogni tanto, ancora la gente a votare e crea squilibri. Il fatto che la Gran Bretagna non si sprofondata dopo il Brexit proprio non gli va giù. Ma è solo un gioco delle parti, non abbiate paura. L’Europa ci manda la letterina e Renzi fa il duro, minacciando ciò che nei fatti non può fare: ovvero, mettere il veto sul bilancio.
Il perché di quella intemerata è semplice, visto che proprio qualche giorno fa il Parlamento europeo a Strasburgo ha respinto la bozza di bilancio comunitario proposta dal Consiglio europeo, chiedendone l’aumento. Ma sul bilancio annuale gli Stati membri non hanno potere di veto, visto che il Consiglio europeo lo vota a maggioranza e sono sufficienti sedici Paesi che rappresentino almeno il 65% della popolazione. Un’eventuale minoranza di blocco potrebbe essere costituita da un numero di Stati che rappresenti come minimo il 35% degli europei. Insomma, su questo capitolo l’Italia avrebbe bisogno di alleati se volesse scagliarsi contro Juncker e, in una sorta di conflitto proxy, contro Angela Merkel. L’unanimità e il conseguente potere di veto, infatti, si ha solo sul bilancio pluriennale e, guarda caso, su questa nuova allocazione di capitoli di spesa si parlerà non prima del 2020, quando scadrà la programmazione dei fondi comunitari attualmente in vigore. Insomma, “il bomba” ne ha sparata un’altra delle sue.
Nessuno può permettersi guerre e instabilità in questo periodo, tantomeno Juncker o la Germania, dopo che l’altro giorno un sondaggio di YouGov ha reso noto che il 65% dei cittadini tedeschi ritiene che il Paese sia meno sicuro da due, tre anni a questa parte: di fatto, un attacco frontale alle politiche migratorie del governo, il quale a settembre del prossimo anno dovrà fare i conti con le urne. Esattamente come la Francia e l’Olanda in primavera: c’è troppo da perdere per fare sul serio, sono cani che abbaiano ma non mordono.
Ma quando le cortine fumogene sono così dense e ben orchestrate, succedono cose importanti che finiscono sotto silenzio: i tg, infatti, hanno tutto l’interesse a parlare dello “scontro” Roma-Bruxelles, visto che si innesca nel contesto referendario, ma non vi dicono altre cose. Proprio giovedì, infatti, la Vallonia ha fatto un passo indietro dopo lo strappo con l’Ue che ha bloccato la ratifica Trattato di libero scambio con il Canada (Ceta). Il premier belga, Charles Michel ha annunciato che è stato trovato un accordo con la regione francofona ribelle sul Ceta, casualmente subito dopo che era saltato l’incontro per la firma previsto con il premier canadese, Justin Trudeau.
«Abbiamo trovato un accordo», ha annunciato Michel, al termine di una riunione con le regioni e le comunità linguistiche del Belgio. Certo, ora l’intesa dovrà ora essere inviata all’Unione – la quale la ratificherà senza problemi ,- ma il nodo politico è duplice. I regolamenti europei prevedono infatti che i vari Parlamenti nazionali debbano pronunciarsi in merito a materie come queste, ma appena uno di loro si oppone, proprio gli europeisti – ovvero chi dovrebbe difendere questi meccanismi di democrazia – protestano e puntano il dito contro i valloni disfattisti. La coerenza è bene raro.
In secondo luogo, l’opposizione del Parlamento vallone si basava su una questione seria, dirimente. Il nodo più difficile da sciogliere è stato infatti quello che riguarda le norme sugli arbitraggi, previste dal Ceta in caso di controversie commerciali che, stando al giudizio più che serio dei valloni, metterebbero in dubbio la capacità legislativa degli Stati nazionali.
Più nel dettaglio, la Vallonia considerava la questione dalla protezione degli investimenti come uno dei temi più sensibili del trattato: il Ceta introduce infatti la cosiddetta clausola “Isds”, acronimo di Investor to State dispute settlement, la quale consente a un imprenditore straniero che si ritenga penalizzato da una qualche decisione dello Stato ospite (una decisione che abbia cambiato le condizioni stabilite nell’intesa iniziale) di cercare una soluzione della controversia con una conciliazione o un arbitrato. Dunque, le multinazionali possono citare in giudizio uno Stato se questo adotta politiche contrarie ai loro interessi.
E, cosa ancora più grave, l’ok al Ceta – ormai scontato e con introduzione in prova in tempi rapidi – di fatto introduce in maniera proxy anche il Ttip dato per morto, visto che l’85% delle multinazionali Usa ha una filiale canadese e quindi può sfruttare il Ceta come cavallo di Troia. Non vi pare che questa notizia meritasse l’apertura dei telegiornali di giovedì sera, invece della pantomima tra Roma e Bruxelles su un decimale di deficit?
Attenti, in periodi di disinformazione strategica e generalizzata come questa, fanno passare qualsiasi cosa. E rischiate di pagarne le conseguenze a cose fatte, quando non si potrà più tornare indietro. Esattamente come con la manovra farsa del governo, i cui costi reali si abbatteranno sugli italiani nel 2017.