“Dal 2 ottobre i file trasmessi vengono scartati dal sistema senza alcun messaggio che ne evidenzi la motivazione; il call-center dedicato è in tilt e non è possibile avere alcun tipo di supporto; la piattaforma risulta inibita per qualunque funzione per periodi prolungati a causa dell’eccessivo numero di accessi contemporanei; le software-house forniscono indicazioni di comportamento diverse (alcune raccomandano di non rinviare i file scartati, altre suggeriscono di sospendere l’invio di qualsiasi file), segno, questo, della totale incertezza sulle procedure; si pensi poi alla situazione di colleghi che non usufruiscono di programmi esterni ed il cui unico riferimento è il portale dell’Agenzia; molte funzioni non risultano disponibili”… E l’elenco potrebbe continuare. Di che si tratta? Dell’ennesima, impotente protesta dei commercialisti, in questo caso, l’Anc – Associazione nazionale commercialisti – contro lo “spesometro”, espresso ieri con un comunicato dal titolo: “Spesometro nel caos: annullare subito l’adempimento”.

Eccoli qua, i nostri eroi che secondo il ministro dell’Economia Piercarlo Padoan dovrebbero procurare all’erario l’anno prossimo ben 5,1 miliardi di nuove entrate, rappresentate – recita il comunicato emesso ieri dal governo – da “misure allo studio che mirano a ridurre l’evasione di alcune imposte, in particolare le indirette”. Un po’ come affidare a Brancaleone il contrasto dell’Isis o a Mister Bean il killeraggio di Kim Jong-un. 

Ma tranquillizziamoci: è tutto chiaro. Questa “integrazione della nota di aggiornamento del Def con maggiori dettagli della manovra” presentata ieri dalla maggioranza al costo – non sanguinoso, per carità, eppure notevole – delle dimissioni del viceministro dell’Interno Filippo Bubbico, ebbene: questo documento è solo il pezzo di una Legge di bilancio pre-elettorale, che questo governo voterà e farà approvare dalla sua pur traballante maggioranza, sapendo in partenza che non toccherà poi a lui gestirla, ma al futuro esecutivo che s’insedierà dopo le elezioni politiche di marzo 2018.

Ricordiamo che la manovra per il 2018 parte da un valore di 19,58 miliardi, di cui 10,9 miliardi di deficit e 8,62 di coperture tra entrate e tagli di spesa. Gli impieghi per ora indicati valgono 3,8 miliardi (al netto della sterilizzazione delle clausole di salvaguardia). Dove trovare tanti soldi? Un po’ col deficit; ma anche da 3,5 miliardi di tagli di spesa, compreso il miliardo l’anno a carico dei ministeri con la nuova spending review: e già questa previsione pare a dir poco ottimistica, tanto più se si considera che questa spending review dovrebbe incardinarsi sul lavoro della Consip, istituzione sderenata dallo scandalo. Ma la chicca sono quei 5,1 miliardi di nuove entrate da lotta all’evasione. Ma quale lotta?

Lo stato pietoso della questione è ben rappresentato dalle polemiche sullo spesometro. Ma basta risalire indietro di qualche mese per ricordarci, tutti, di quanto poco in cale sia stata tenuta da questo governo la lotta all’evasione. Nelle 123 righe delle dichiarazioni programmatiche lette martedì 13 dicembre 2016 ai parlamentari dall’allora ne-premier Paolo Gentiloni non c’era alcun riferimento al tema fiscale. Nel 2015 Renzi, secondo gli statistici di queste cose, aveva citato l’evasione in tutto otto volte. Alla conferenza stampa di fine anno Gentiloni, dopo quindici giorni dall’esordio, s’era invece addirittura vantato che i governi da lui partecipati avessero “diminuito le tasse” “recuperando l’evasione”.

In realtà, è vero il contrario: nel 2015 la somma che il fisco è riuscito a scovare e a farsi restituire dai ladri di tasse è diminuita. Gentiloni aveva dato credito a Renzi, che di questo inesistente risultato si era appena vantato. Peccato che nella relazione della Corte dei Conti sul rendiconto generale dello Stato per il 2015 i magistrati contabili avevano scritto che “l’attività di controllo e accertamento sostanziale ha comportato entrate per complessivi 7,753 miliardi”, la metà di quanto sparato da Renzi.

Il giochetto di prestigio del raddoppio celava un’addizione impropria tra il recupero vero e proprio dell’evasione e i 4 miliardi di incassi di quell’ennesimo condono “dal nome bello” che è stata la voluntary disclosure. Infine: secondo la Corte dei Conti nel 2015 i controlli dell’Agenzia delle entrate si sono fermati a quota 621 mila (su 6 milioni di contribuenti “sospetti”), con un calo del 4% sull’anno precedente e del 16% sul 2012. Una nota veloce sul 2016: mentre Padoan e Gentiloni hanno rivendicato risultati “senza precedenti”, la verità è che lo scorso anno, rispetto al 2015, la quota che il fisco ha incassato non grazie ai controlli, ma semplicemente perché i contribuenti che avevano fatto errori o dimenticato qualcosa nella dichiarazione dei redditi hanno saldato il dovuto, è salita dal 68% al 72%. Altro che lotta: puro senso civico dei cittadini già onesti per conto loro.