Di vero e di buono, nel nuovo bollettino sanitario che il Fondo monetario internazionale ha emesso sull’Italia non ci sono i dati migliorativi che i misuratori di Washington hanno emesso: quelli dimostrano soltanto che se “un mese e mezzo fa la crescita prevista per il Pil italiano nel 2016 era dello 0,8%”, la capacità previsionale del Fondo è inesistente. No, di buon c’è ben altro. Lo scostamento tra quel che appariva due mesi fa e quel che appare oggi – pur essendo i rilievi con ogni evidenza del tutto inaffidabili – dimostra che “ci sono più cose tra il cielo e la terra che in tutta la loro analisi matematica”. Dimostra che le forze reali dell’economia – che è fatta di persone, e non di numeri – spiazzano e sorprendono, sempre, nel bene o nel male ma sempre. Dimostra, ancora, che la macchina italiana ha solo bisogno di essere lasciata in pace – anche se poi siamo noi stessi i primi a reclamare vacuamente riforme e riformine – per rimettersi in moto: è bastato qualche mese di governo inesistente, di soporifero calduccio dell’esecutivo, col misirizzi di Rignano temporaneamente messo in condizioni di non nuocere e con l’innocuo esecutivo Gentiloni a sbrigare l’ordinaria amministrazione, e il motore si è riacceso.
I renziani accrediteranno al loro ducetto il merito di una ripartenza che è invece, e dunque, totalmente autoctona. Certo non dipende dal Jobs Act i cui millantati posti di lavoro incrementali sono invece solo figli della velenosa ma indispensabile riforma Fornero, che ha inchiodato ai loro uffici gli over-sessanta, né dipende dalla politica degli incentivi a pioggia sui consumi, non a caso piatti, diversamente dall’export che invece tira perché è lì che la capacità delle nostre aziende sa esprimersi al meglio.
Da che dipende allora? Una cosa buona il governo Renzi l’ha fatta, utile alla ripresa, proprio perché non capendoci niente non ci ha messo le mani il capo: il piano Calenda, che infatti si chiama come il suo vero autore, che non a caso è odiato dall’ex capo-gita. Il piano Calenda (e ancor prima, la legge Sabatini) ha messo a frutto la lezioncina semplice-semplice degli sgravi fiscali alle ristrutturazioni, inventati molti anni prima che il ducetto nascesse: un meccanismo banale, con cui se io spendo, in chiaro (cioè con tutte le dovute fatture) per dei fini che la politica considera utili alla collettività, come ristrutturare la casa o, stavolta, attrezzare meglio tecnologicamente la mia impresa, posso dedurre in parte i costi che ho sostenuto dalle odiate tasse: nel caso del piano Calenda, col meccanismo del superammortamento, fino a 60% in dieci anni. Insomma se ho speso 100 euro 60 me li scomputo dalle tasse. Una vera beneficiata, di cui il sistema ha approfittato, bene.
Ed è ammirevole come ancora una volta l’azienda Italia “vera” sappia ripartire pur nel bel mezzo del nostro delirio politico. Mentre il Paese virtuale blatera di meccanismi elettorali pensati sempre e solo non per il bene futuro del sistema, ma alla ricerca velleitaria dell’interesse di parte, gli italiani lavorano. Mentre gli analisti finanziari di mezzo mondo guardano preoccupati al nostro debito pubblico-monstre, i ragionieri di mezza Italia arrivano alla fine dei loro fogli di partita doppia e ci trovano utili, utili crescenti, utili possibilmente da occultare, tamponare, sottrarre al vortice risucchiante di un erario inutile se non per sovvenzionare gli ozi dell’Alitalia e i buchi delle banche malversatrici. È ammirevole come il Paese reale sia migliore di quello istituzionale: e come continui a non saper esprimere questo suo “meglio” al momento di votare.
Cosa c’è che non va, allora, nella consueta e sgangherata “Tac” che il Fondo monetario ha fatto alla nostra economica. C’è il promemoria – indirizzato in fondo proprio al Paese reale più che a quello istituzionale – sul fardello che la canaglia prodigale della classe politica succedutasi nei decenni, perché i guai sono iniziati negli anni Settanta, ci ha piazzato in groppa, il debito pubblico. Una montagna di 2270 miliardi di euro, pari al 132 per cento del Pil. Che genera una montagna di costi ogni anno per essere finanziato; che può in ogni momento costarci molto di più quando presto o tardi la dinamica della crescita economica indurrà un rialzo dei tassi.
A fine 2018 scade il mandato di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea. La strapotente “Kaiserlin”, Angela Merkel, l’ha già prenotata per il suo protetto, l’attuale presidente della Bundesbank Weidmann, un “falco” che da sempre contrasta le scelte di Draghi e che non concepisce la brancaleonica resilienza di un’economia come la nostra, caotica, disordinata e mezza sommersa che però poi è l’unica, sui mercati internazionali, a dare del filo da torcere agli esportatori tedeschi. E dunque l’appuntamento col debito pubblico è certo, come le giaculatorie del mercoledì delle Ceneri: “Memento qui es pulvis et in pulvere reverteris”. Siamo indebitati per 40 mila euro a testa, poppanti e nonnetti compresi. Non c’è da stare tranquilli. Perciò, rimbocchiamoci le maniche e continuiamo a lavorare, basta non contare in alcun modo sulla politica e le cose potranno anche andare meglio.