L’Istat ha diffuso la nota mensile sull’andamento dell’economia italiana, da cui sembra emergere un quadro positivo, con una prosecuzione della crescita dei consumi e un miglioramento della fiducia dei consumatori e delle imprese. L’indicatore anticipatore è quindi ancora positivo. E Pier Carlo Padoan ha affermato che “l’economia italiana va meglio della media”. «Purtroppo i dati e il clima economico non vanno più di pari passo», ci dice Leonardo Becchetti, Professore di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma.
Cosa intende dire Professore?
L’Ocse ha detto che con la struttura produttiva e la dinamica demografica che ha il Paese in questo momento, la crescita strutturale faticherà a essere molto più alta dell’1,3% che si profila per quest’anno. Quindi, il nostro Paese ha dei problemi strutturali da superare, che sono poi sempre gli stessi: costo dell’energia, burocrazia, tasse alte, difficoltà di accesso al credito per le pmi.
I dati economici dell’Italia sono però positivi…
Certo, i dati indicano una ripresa e un lento miglioramento. Tuttavia c’è un problema di fondo: c’è una parte del Paese (il 30% circa) che ce la fa, è dinamico ed esporta, ma c’è un’altra parte (almeno i due terzi) che è in difficoltà, che fatica. E c’è anche una parte del Paese prigioniera di una narrativa assolutamente semplicistica, secondo cui i problemi dell’Italia fondamentalmente si risolvono uscendo dall’euro o bloccando gli stranieri alla frontiera. È una narrativa che si basa su dati ed evidenze completamente sbagliate.
Perché dice che sono sbagliate?
In questi giorni sembra che l’Italia sia invasa dagli stranieri, ma i dati ci dicono che sono due anni che perdiamo popolazione. I 150-170mila italiani in meno sono sostituiti da un numero inferiore di stranieri, che tra l’altro sono giovani e che risolvono in parte il problema demografico del Paese. Non bisogna dimenticare poi che molti di loro non hanno intenzione di fermarsi da noi.
Come si possono dare delle risposte a quella parte, maggioritaria, dell’Italia che non ce la fa?
Insieme agli altri membri delle Settimane sociali dei cattolici abbiamo creato un percorso che parte da una nota di umiltà: cioè, abbiamo deciso di cominciare andando a vedere oggi chi ce la sta facendo. Abbiamo un bell’osservatorio, più di 360 realtà interessanti nel Paese che ci hanno consentito di costruire una rete di proposte di policy per l’Italia e per l’Europa, incentrate sul lavoro, che è oggi il problema più drammatico. Abbiamo messo a punto una proposta articolata, con una serie di interventi, perché è impossibile pensare che una misura sola risolva tutto magicamente. Riteniamo importanti le riforme del sistema-Paese, riguardanti i tempi della giustizia, la burocrazia, i costi dell’energia e soprattutto il costo di accesso al credito per le pmi. Quest’ultimo è un serio problema strutturale.
Che non è stato risolto?
No, anzi, si continua a puntare sul modello della grande banca massimizzatrice del profitto, per la quale fare prestiti alle pmi è un’attività in perdita, che cercherà quindi di dismettere. Abbiamo bisogno di operatori ad hoc che servano questo tipo di imprese, che sono la maggioranza di quelle presenti nel Paese. Negli altri paesi ci sono le credit unions, le landesbanken, un tipo di banca cooperativa locale che ha come mission specifica quella del prestito ai piccoli.
Dunque, anche se si è messo in sicurezza il sistema bancario con gli interventi su Mps e le banche venete, resta aperto questo problema.
Basta guardare i dati Confartigianato relativi all’accesso al credito per dimensione di impresa: i prestiti alle grandi sono aumentati e quelli alle piccole continuano ad avere segno negativo a tanti anni dall’inizio della crisi. E questo anche quando si guarda al segmento di minor rischio. È un problema strutturale, un fatto di matematica: se sono una grande banca quotata in borsa, che deve creare il massimo valore per gli azionisti, quale può essere il mio interesse a fare un prestito di 10.000-15.000 euro che porta a ricavi di 1.000-2.000 euro e comporta un costo enorme in termini di tempo bancario per capire se il progetto è buono, ecc.? L’unica scelta sensata è stata la riforma del credito cooperativo, che ha in un certo senso rinforzato questo modello di banca che tradizionalmente presta una quota più alta della media alle pmi.
I Piani individuali di risparmio sono stati creati per far confluire liquidità alle pmi e stanno avendo un certo successo tra gli italiani…
I Pir sono una buona idea, anche se per ora stanno solo gonfiando i prezzi delle azioni delle società quotate sul segmento Star: non si vedono al momento nuove realtà approdare sul mercato come si pensava. Il denaro, quindi, rischia solo di creare una bolla sui prezzi azionari e non di defluire all’economia reale.
Al di là dei problemi italiani da risolvere, l’Europa deve fare la sua parte, deve cambiare?
Non c’è dubbio. Bisogna che si trasformi e faccia scelte importanti, per esempio, sugli investimenti pubblici e la garanzia comune sui depositi bancari. Dovrebbe poi pensare a uno strumento che sia una sorta di reddito di inclusione europeo, rafforzando le politiche nazionali su questo fronte.
(Lorenzo Torrisi)