Sospironi di sollievo da sembrare mantici dalle parti di Rignano sull’Arno. Se le greggi del Pd pascolano in ordine sempre più sparso, se i sondaggi danno Minniti al 50% di consensi contro il 30% scarso di Matteo, se Gentiloni strappa applausi al Meeting di Rimini e sostegno convinto al Quirinale, almeno Moody’s lo ama, Renzino, l’ex premier, l’ex leader, l’ex Rottamatore. Perché?



E’ presto detto. L’8 dicembre 2016, la più celebre — o famigerata — agenzia di rating del mondo, quelle che danno il voto agli Stati, alle banche e alle aziende, dopo la débâcle renziana al referendum istituzionale del 4 dicembre aveva tagliato le prospettive per l’Italia: “La crisi politica pesa sulle riforme. Il rischio è che lo Stato debba ricapitalizzare banche”. Perché l’esito del referendum, stando ai suoi analisti, avrebbe finito con “aumentare il rischio che le perdite potenziali del settore creditizio ricadano sul bilancio pubblico”. 



E adesso, cosa ti è andata a fare Moody’s? Ha rivisto al rialzo le stime di crescita del nostro Paese. Secondo l’Agenzia di rating quest’anno e l’anno prossimo l’Italia crescerà dell’1,3% contro lo 0,8% e l’1% stimato in precedenza. La crescita è sostenuta “dalla politica monetaria e di bilancio e da una ripresa più forte nella Ue”, spiega Moody’s. Evviva! Un altro aiutino a Renzi! O no?

Ebbene: no. Per due ragioni. Innanzitutto per il contesto nel quale Moody’s colloca questa revisione, un contesto che vede tutti i Paesi dell’Eurozona crescere più del previsto, con la Germania che passerà dal +2% al +2,2% e con la Francia che starà all’1,6% sia per il 2017 che per il 2018. “Gli indicatori suggeriscono un’accelerazione della crescita per il resto dell’anno — spiegano gli gnomi di Moody’s — e l’indice di fiducia dei consumatori ai massimi da 16 anni fa ben sperare per una ripresa dei consumi”.



Dunque non è poi così renziano, il giudizio di Moody’s: semmai è autolesionista, perché smentisce clamorosamente se stesso dopo appena otto mesi, confermando che (neanche) gli analisti della prestigiosa (un tempo) casa newyorkese si sanno orientare nella politica italiana. Non è renziano perché inserisce questo “upgrade” (promozione) in una serie di promozioni analoghe che sanciscono il ben maggior dinamismo delle economie degli altri Paesi; e poi perché al governo, da dicembre, Renzi non c’è più. E gli unici provvedimenti governativi che senza dubbio hanno aiutato la crescita economica sono stati il Piano Calenda Industria 4.0 e gli interventi di Enrico Franceschini a sostegno del turismo, decisioni di due tra i ministri meno renziani del mondo, il primo — addirittura — odiatissimo dalle parti di Rignano e il secondo — ancor più odiato, addirittura — papabile per sostituire il ragazzaccio alla segreteria del Pd.

Dopo di che: meno male che cresciamo, meno degli altri ma cresciamo. E ben più credibilmente di Moody’s lo accertano le stime di altre istituzioni, assai meno compromesse nella credibilità della ex agenzia leader. Dal Fondo Monetario Internazionale all’Ufficio Parlamentare di Bilancio, passando per Banca d’Italia e Confindustria fino all’Istat, tutti hanno rilevato nel secondo trimestre una crescita ormai acquisita dell’1,2% nei primi sei mesi dell’anno, già oltre l’1,1% indicato nel Def come crescita per l’intero 2017. 

Perciò, anche se la crescita dei prossimi due trimestri fosse pari a zero — il che già si sa che non sarà, anzi! — comunque il dato finale sarebbe superiore alle stime del governo. L’export tira, e un volume di export di 450 miliardi, in crescita (si dice) del 6% sul 2016 spiega da solo la crescita del Pil. Quei 24 miliardi di export in più, et voilà quasi tutto quell’1,5% di Pil in più che si cercava. Prosit. Ma non è vera ripresa e, soprattutto, Renzi — con gli 80 euro e il Jobs-Act — c’entra come i cavoli a merenda.