E’ stata un’estate molto calda per Telecom Italia o Tim dopo l’annuncio delle dimissioni dell’ad Flavio Cattaneo, nel luglio scorso. La notizia ha avuto molta risonanza sui giornali per le cifre elevate della sua liquidazione. Purtroppo, si è verificato quanto tanti lavoratori dell’azienda, fin dal primo momento, avevano denunciato: Flavio Cattaneo aveva strappato un premio, uno special award, così ingente e fuori mercato, perché era stato chiamato a svolgere un lavoro “sporco”: rimettere in sesto, nel minor tempo possibile, i bilanci aziendali, dare una robusta ed immediata sferzata all’azienda, per renderla “appetibile” e prepararla ad una seconda fase, di vendita, secondo le modalità tipiche di Vivendi. Purtroppo, i piani triennali erano soltanto delle velleitarie dichiarazioni di intenti.
Con qualche ragione su queste pagine si era affermato, nel febbraio scorso: “…Da troppo tempo, infatti, i dipendenti Tim sono costretti a fare i conti con un top management che semplicemente ‘prende’ la propria parte (spesso particolarmente esosa) e se ne va, lasciando un po’ più povera la ‘loro’ azienda”.
E’ poi anche possibile ipotizzare che Cattaneo volesse rimanere più a lungo al comando dell’azienda e che magari avesse cominciato a pensare ad un proprio ruolo autonomo, oltre la proprietà di Vivendi. Ma queste rimangono illazioni che non cambiano lo scenario reale.
La situazione di Tim è, in questo periodo, ampiamente analizzata e documentata sui media, almeno dal punto di vista economico e finanziario.
Pochi però, si sono posti la domanda: perché il disagio di migliaia di lavoratori dell’azienda — espresso in decine di scioperi e manifestazioni — non ha trovato rappresentanza adeguata a livello politico, non ha inciso politicamente? Perché, nei fatti, l’unico referente politico-partitico di tutto questo sommovimento sembra essere il M5s? Certamente, c’è stata un’ampia risonanza a livello parlamentare, attraverso diverse convocazioni delle commissioni parlamentari sia alla Camera che al Senato, interessate ai temi delle telecomunicazioni, così come a livello locale, singoli parlamentari o interi consigli comunali o regionali hanno preso posizione ed espresso solidarietà ai lavoratori di Tim.
Ma non ci sembra che il disagio dei lavoratori Tim sia stato percepito per quello che veramente rappresenta, la spia di una mancata affermazione del bene comune nella gestione delle telecomunicazioni e una risorsa nazionale. Per questo esso non ha trovato adeguata rispondenza nelle iniziative politiche dei partiti, eccetto il M5s, che però, dal nostro punto di vista, si limita sostanzialmente a cavalcare la protesta.
Forse analizzare come questo sia potuto accadere, ci può offrire uno spaccato utile per comprendere anche la situazione nazionale e perché il M5s, nonostante non stia offrendo di sé — a Roma e Torino — l’immagine di un partito in grado di governare, rimanga però così competitivo nei sondaggi.
Il disagio dei lavoratori Tim si è espresso in due grandi scioperi nazionali, uno nel dicembre dello scorso anno e un altro — di settore delle telecomunicazioni — nel febbraio scorso. Tutte le sigle sindacali si erano trovate unite da una parte, di fronte ad una dirigenza Tim che aveva disdetto il contratto aziendale integrativo in modo unilaterale, e dall’altra, di fronte al mancato rinnovo del contratto di settore, fermo ormai da quasi tre anni.
Subito dopo, però, Cisl, Uil e Ugl hanno iniziato a differenziarsi dagli altri e hanno aperto dei tavoli di trattativa con l’azienda, rivendicando una posizione pragmatica. Ricordiamo che questi sindacati insieme avevano la maggioranza nella Rsu aziendale fino al gennaio 2016 e che avevano firmato l’adozione dei contratti di solidarietà per tre anni, con la precedente dirigenza aziendale, per evitare circa 3000 esuberi. Questa decisione era stata fortemente contestata da parte della Cgil e degli altri sindacati di base (Snater, Cobas e altre sigle) e nelle elezioni del gennaio 2016, Cisl, Uil e Ugl avevano perso la maggioranza, con un forte incremento della Cgil e dei sindacati di base.
Nei fatti, il disagio dei lavoratori ha trovato facile eco nelle lotte e nei volantini sempre più radicali dei sindacati di base. Questi contenuti sono stati poi ripresi in maniera sempre più organica da parte di rappresentanti del M5s, arrivando ad una saldatura fra protesta sindacale e radicalizzazione politica.
La Cgil, secondo alcuni divisa al proprio interno, ha pubblicamente espresso una posizione che cercava di recuperare il consenso delle parti più radicalizzate, polemizzando con gli altri sindacati confederali.
Quello che è accaduto è stata la rottura fra i sindacati confederali. Ultimo caso, in ordine di tempo: la Cgil ha vinto una causa del lavoro per comportamento antisindacale da parte dell’azienda, in quanto l’azienda invece di trattare con la rappresentanza Rsu regolarmente eletta, ha modificato il regolamento, che aveva unilateralmente imposto a febbraio, trattando direttamente con le rappresentanze sindacali nazionali più moderate. Il risultato paradossale è stato che è stato ripristinato il regolamento aziendale del febbraio scorso, ma sono state cancellate le poche migliorie apportate nel frattempo con la trattativa, gettando ancora di più nello sconcerto i lavoratori.
Cisl, UIil e Ugl hanno affermato prima di tutto un principio, che per un sindacato riformista dovrebbe essere fondamentale: si tratta sempre, prima di tutto si chiede di trattare. D’altra parte, per forzare la situazione di stallo che si era creata nel febbraio scorso, in alcuni volantini queste sigle hanno abbracciato abbastanza acriticamente le promesse e le strategie della nuova dirigenza, dimenticando che essa era espressione di un socio che opera secondo una logica finanziaria.
La Cgil ha sicuramente avuto il primato sindacale sul movimento dei lavoratori che si è creato in azienda, ma adesso rischia di impantanarsi in una posizione di principio rigida: continuare a riproporre scioperi quasi mensili ha stancato e snervato la base, che già deve sopportare la decurtazione salariale per le giornate di solidarietà, oltre altre decurtazioni come le riduzione dei premi annuali, l’eliminazione del “mancato rientro” pari a circa 100 euro al mese, causate dalle scelte della nuova dirigenza. Inoltre, continuare a polemizzare con gli altri sindacati confederali non può portare a nulla di positivo.
In questa situazione, così, la protesta, non incanalata verso un progetto di costruzione e di proposta positiva, ma soltanto riaffermata come principio (e sia chiaro, la nuova dirigenza di Vivendi ha fatto molte scelte per alimentare una posizione del genere), rischia di lasciare spazio soltanto a chi va verso una posizione di rottura.
In un momento così critico per le sorti aziendali, sarebbe veramente grave che la voce dei sindacati confederali non possa presentare delle proposte unitarie e dialogare con le altre parti sociali ed il governo, per le scelte di politica industriale che diventano sempre più pressanti.
O dovremo assistere al fatto che Vivendi esporta in Italia la radicalità e la violenza delle vertenze sindacali francesi?