Li avevamo chiamati “bamboccioni”. E non immaginavamo che proprio i giovani che non riescono a costruirsi una vita indipendente – l’Italia detiene il record mondiale con oltre 7 milioni secondo l’Eurostat – al momento giusto sanno darsi una mossa, sono capaci di tirar fuori gli artigli e farsi valere: non si allude però a uno scatto di orgoglio e ambizione che li spinge a superare lo stato permanente di studenti “fuori corso” o a rinnovare la strategia nella ricerca del lavoro, ma alla decisione di dare il via ad una battaglia legale che trascina i genitori nelle aule giudiziarie.
Ogni anno si registrano infatti nei tribunali italiani 30.000 nuove cause che vedono i figli contro i genitori per motivi economici, giunti cioè alla denuncia con la pretesa di farsi mantenere ben oltre il compimento della maggiore età. Dai dati forniti recentemente dal Centro Studi dell’Associazione degli avvocati matrimonialisti italiani (Ami), emerge che l’età media dei figli che richiedono l’assegno è di ben 29 anni e, nella quasi totalità, gli stessi figli beneficiano del gratuito patrocinio a spese dello Stato, in quanto non titolari di reddito o titolari di redditi non superiori ad euro 10.628,16. Nel 70% dei casi si tratta di figli iscritti all’università, anche fuori corso da anni, nel 30% invece, di figli disoccupati o con occupazione precaria, temporanea o in nero. L’età media dei genitori è di 59 anni per il padre e 57 per la madre; nel 58% dei casi ad essere citati in giudizio sono i padri, nell’8% le madri e nel 24% entrambi i genitori.
È sempre difficile delineare fenomeni attinenti all’esperienza umana attraverso una griglia di dati statistici: tuffandoci però con l’immaginazione nell’ampia casistica – 30mila cause ogni anno! – sembra possibile almeno intuire la congerie di vicende consumate fra tensioni, ansie, frustrazioni, incomunicabilità, litigi… un disagio dilagante che non è certo solo economico. E pur rischiando una percezione distante e sviante dalle singole storie, possiamo comunque cogliere un elemento che le accomuna, che le attraversa come una strana anomalia: l’urgenza di un bisogno, l’esigenza avvertita dai giovani di trovare una strada aperta e un futuro – un lavoro e i mezzi per decollare nella vita – oggi scatenano una guerra proprio contro i soggetti che più di altri forse, così verrebbe da supporre, si sarebbero naturalmente augurati di veder realizzate quelle stesse aspettative dei figli.
Genitori e figli, sarà per le difficoltà della crisi economica, in molti casi sommata ad una labilità dei legami familiari che accentua precarietà e solitudine, oggi di fatto si stanno rivelando antagonisti, nemici, non più alleati, non più dalla stessa parte a combattere le difficoltà, le ingiustizie, la paura del domani.
Genitori e figli sono diventati contendenti, parti avverse in un’aula di tribunale dove torto e ragione, diritti e doveri, vengono stabiliti in base ai dettami delle leggi e finiranno comunque per rimarcare un divario fra chi vince e chi perde, fra risarciti e penalizzati. E se potrebbe venir facile deplorare chi a trent’anni, magari al quarto anno “fuori corso”, pretende ancora di essere mantenuto invece di cercarsi un qualsiasi lavoro, è la legge 54/2006 a ribadire l’obbligo per i genitori di mantenere i figli anche maggiorenni, senza indicare un limite di età, o meglio, fino a quando non trovino un lavoro adeguato alle loro aspirazioni e al percorso formativo di studi svolto.
E l’interpretazione della stessa norma, avvalorata dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, non sembra generalmente dar rilievo a perplessità o reticenze di un mondo adulto che i figli trentenni vorrebbe spingerli all’indipendenza, se non tagliando i viveri, almeno ridimensionando qualche pretesa o spronando ad accettare anche lavori non proprio adeguati alle aspettative, al titolo di studio, al tenore di vita da sempre garantito in famiglia.
Un obbligo che, ammesso che in qualche caso possa rivelarsi concretamente efficace nel risolvere l’emergenza di un soggetto debole, sottolinea il trasferimento di una dinamica naturalmente carica di istintive complicità, di intesa solidale e reciproca responsabilità, proprie di un rapporto fra genitore e figlio, nella sfera di una giustizia anonima, impersonale, calibrata su un dispositivo “uguale per tutti”, automatico e imparziale, estraneo alla drammatica complessità delle relazioni umane sempre cariche di smisurate aspettative, di errori e delusioni, ma anche di imprevedibili risorse e strategie di sostegno.
In una situazione di crisi che − come si ripete spesso − ha origini antropologiche e culturali prima che finanziarie, le battaglie giudiziarie che esasperano la conflittualità nelle relazioni familiari già fragili, non appaiono certo come un segno confortante. Riflettono piuttosto, come in uno specchio, l’alienazione e il disimpegno che sono alla radice di un deterioramento dei rapporti sociali e che rischia di allontanare la ripresa invece che facilitarla.
“La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, diventando così occasione di discernimento e di nuova progettualità” suggerisce un passaggio della Caritas in veritate. Forse anche sul fronte delle rivendicazioni di figli che credono di trovare risposta al loro disorientamento e alla loro precarietà mettendo sotto accusa i genitori, occorre archiviare le carte bollate per privilegiare altre logiche, rinsaldare alleanze spezzate, valorizzare dinamiche di incontro e comunicazione radicalmente innovative.