Per il tema a carattere storico, il ministero dell’educazione ha voluto chiedere agli studenti di commentare una frase tratta dal libro di Hannah Arendt (Hannah ARENDT, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964, dal Capitolo settimo: La conferenza di Wannsee, ovvero Ponzio Pilato). Il tema ha a che vedere con l’olocausto e lo sterminio degli ebrei, una tragedia di così vaste proporzioni che giustamente il ministero vuole che si continui a ricordare e commentare. IlSussidiario.net ha chiesto a Lorenzo Roesel, studente universitario, di svolgere il tema in questione. Lo stesso ministro Terzi, commentando le tracce a Radio Anch’io ha voluto accostare la grande tragedia della Shoah a quanto sta avvenendo in Nigeria con le sistematiche stragi di cristiani. Per il ministro questi temi sono quelli da cui è possibile valutare da un punto di vista umano come un “italiano” ragiona su queste tematiche.
—
Il dramma dell’Olocausto, lo sterminio pianificato e sistematico del popolo ebraico da parte del regime nazista, segna indelebilmente le coscienze di ciascuno di noi. L’atrocità delle operazioni, preparate da un’intensa campagna diffamatoria e dall’uso spregiudicato di leggi razziali (le Leggi di Norimberga sono del 1935), non può interrogare pacificamente le nostre coscienze come quelle dei contemporanei immediatamente successivi. Come si possa essere arrivati ad una tale efferatezza e sistematicità in crimini di per loro abituali (come l’omicidio) è tuttora una domanda inquieta per chiunque si confronti con eventi storici di tale natura.
Hannah Arendt non è da meno. Nel testo preso in esame (tratto da La Banalità del Male) si sofferma su un episodio significativo: i gerarchi nazisti, fra cui spicca un giovane Eichmann, del quale la Arendt seguirà il processo come inviata del settimanale New Yorker a Gerusalemme nel 1961, si ritrovano per “preparare con cura” la “soluzione totale della questione ebraica in Europa”. Ci si aspetterebbe una relazione di fatti, una cronaca sterile o all’opposto un violento attacco tout court e senza quartiere all’ideologia nazista, certamente imputata dei crimini più orribili ma la questione per Hannah Arendt è molto più complessa.
Emerge in queste righe prese in esame il vero obiettivo della filosofa e storica tedesca: vivamente impressionata dalla difesa di Eichmann (per lui la soluzione finale era stata solo una “questione di trasporti”), dalla spersonalizzazione e dall’assenza completa di una coscienza morale, Hannah Arendt incentra la sua opera sull’Uomo in quanto tale.
Ne indaga in profondità la coscienza umana alla ricerca di un’effettiva presenza o meno di un criterio di giudizio ultimo sul reale, della capacità umana ultima di distinguere fra bene e male.
La sistematizzazione, la quotidianità e la vera e propria “banalità del male” (per citare il titolo dell’opera) hanno anestetizzato la capacità umana di discernimento morale: il male non appare più realmente tale al singolo uomo, preda com’è di un sistema di potere che gli vieta persino di pensare. Questa “normalità” fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati dalla società – in questo caso i programmi della Germania nazista – trovino luogo di manifestazione nel cittadino comune in quanto uomo, che non riflette sul contenuto delle regole ma le applica incondizionatamente.
Qui sta il fulcro di tutto per Hannah Arendt: Eichmann è innanzitutto incapace di pensare autonomamente. È incapace di esprimere un proprio giudizio su ciò che accade, abituato com’era ad agire sempre all’interno dei ristretti limiti imposti dalle leggi e dall’ideologia di regime. È un nuovo tipo di male: non più un male esorcizzabile in un avversario dai caratteri psicologici ma spesso anche somatici definibili, ma un “male banale”, che innanzitutto può insidiare ogni uomo in quanto tale, nella sua normalità.
Hannah Arendt sottolinea la grandezza dell’uomo, e lo fa mostrando le atrocità a cui sarebbe possibile arrivare se l’uomo cessasse di essere tale: se non fosse più cioè essere vivente e pulsante, protagonista e fattore di giudizio continuo verso la realtà.
Müller e Heydrich non sono il Diavolo: non incarnano il male né ne presentano di primo acchito le caratteristiche essenziali. Sono uomini come tutti gli altri ma in una certa misura lo sono di meno. Un’inevitabile umanità che risalta, secondo la Arendt, nella loro “normalità” verso gesti e comportamenti abituali, consolidati. I due gerarchi nazisti si godono “un po’ di riposo”, cominciano a “fumare e bere”, subito dopo aver pianificato, nella loro assurdità, il genocidio di undici milioni di ebrei. È un nuovo tipo di male, che facendo leva sull’anestesia di una parte dell’umano, diviene una facile tentazione per chiunque (e una potente arma nelle mani del potere).
(Lorenzo Roesel)