“Fuori” e “dopo” sono avverbi che segnano ancora pesantemente la collocazione del lavoro rispetto allo studiare e all’imparare nella nostra scuola. Continua così a funzionare il “paradigma della separazione” secondo il quale il lavoro è soprattutto un traguardo esterno al processo di formazione (ciò che si va a conoscere dopo) oppure, bene che vada, un punto applicativo finale di apprendimenti già conseguiti (gli stages di fine percorso alle superiori). Invece il lavoro è all’inizio e dentro, almeno se si concepisce la scuola come un luogo dove si lavora e il lavoro come un metodo di conoscenza.
Dirigo una scuola di 800 studenti, un polo multi-indirizzo che va dal liceo scientifico al professionale, passando per un tecnico economico (ex-Itc) e un tecnologico (ex-Itis) e penso che il lavoro sia la vera carta innovativa (eversiva) della nostra scuola, più delle tecnologie. Perché l’innovazione possa dare i suoi frutti occorre però che si vincano, dentro e fuori la scuola, le resistenze che la frenano.
Le prime resistenze vengono da quei docenti che, abituati ad una impostazione disciplinarista, continuano a ragionare come se stages e alternanze fossero attività, anche meritorie, ma che in realtà “portano via tempo” alla scuola normale. Si discute allora se tre, quattro o cinque settimane di inserimento in azienda durante l’anno scolastico siano troppe, mentre gli imprenditori che conosco sono concordi nel dire che uno stage che si rispetti dura almeno dieci settimane.
Nella mia esperienza la resistenza progressivamente scema grazie ad un minimo di leale ascolto di quello che i ragazzi stessi dicono tornando dallo stage: sono talmente carichi di consapevolezza di quello che hanno imparato, su di sé e sul lavoro, che risulta difficile dire che hanno perso tempo.
La seconda resistenza è quella dell’ideologia, morente ma non troppo, che fa del lavoro una maledizione contrapposta alla benedizione dello studio. In queste settimane di consultazione sulla Buona Scuola del governo è arrivato sul mio tavolo un testo di studenti della Consulta provinciale che criticava Renzi perché, proponendo duecento ore di stages in azienda, metterebbe gli studenti alla mercé dello sfruttamento aziendale. Il problema non sono i diciassettenni che dicono simili cose, ma gli adulti che li ispirano e che appartengono alla scuola di pensiero che ha finora lavorato per affossare tutte le esperienze di apprendistato, ha determinato l’assetto iper-teorico dei nostri istituti professionali (ultimo gioiello l’ora di geografia con cui il ministro Carrozza ha voluto lasciare traccia del suo passaggio al Miur) o ha evitato di porre in molte Regioni il tema del rinnovamento della formazione professionale come priorità.
La terza resistenza, la più forte, è quella che chiamerò di apparato; termine scivoloso, ma nel mio quotidiano, di robusta e incombente presenza. Mi riferisco a quell’insieme di norme, combinate a volontà conservative, che costringono a guardare alle risorse professionali presenti nella scuola solo secondo la logica ora-docente-graduatoria-cattedra. Si impedisce ogni flessibilità e così diventa problematico inquadrare il docente che potrebbe fare il tutor di impresa didattica a scuola (nel mio istituto, ad esempio, un laboratorio didattico di manutenzione degli edifici) oppure a cui si propone di andare, in quanto docente, a fare un periodo di formazione in azienda o ancora, più convenzionalmente, a fare il tutor didattico di una classe in stage.
Davanti a queste resistenze mi pare si aprano due grandi prospettive di responsabilità, da una parte per ciò che è proprio della scuola e dall’altra a ciò che compete alla politica. Alla scuola certamente spetta il compito di un passaggio culturale non breve in cui tutta la didattica, nel suo quotidiano svolgimento, diventi consapevole che il processo di accompagnamento dei giovani alla scoperta della realtà ha bisogno di nuove mediazioni, di strade diverse da quelle del passato. E ciò non significa aggiungere qualche spunto nuovo ad un impianto vecchio (le alternanze, lunghe o brevi che siano, incistate in una scuola meramente trasmissiva di contenuti), ma intervenire su punti forti di rottura perché aiutino a un progressiva trasformazione della routine.
Alla politica oggi molti chiedono soprattutto risorse (i fondi per le alternanze scuola-lavoro di quest’anno sono stati tagliati). Ma ancor più serve coraggio di rottura dell’apparato conservativo per sviluppare gli spunti positivi che la Buona Scuola tratteggia. L’organico funzionale, solo per fare un esempio, può rivelarsi un importante strumento di potenziamento delle esperienze di tirocinio, stage e laboratori interni; ma senza una coraggioso rimescolamento complessivo delle carte rischia di diventare l’ennesimo modo di garantire occupazione senza innalzamento di qualità del servizio. Occorre intervenire per la sfoltire la giungla delle graduatorie, modificare il profilo della funzione docente aprendola alle nuove esigenze, introdurre sistemi di formazione in servizio non lasciati alla buona volontà del singolo, definire una libertà di chiamata dei dirigenti scolastici in relazione alle esigenze della scuola e alle effettive competenze del docente. Non sarebbe poco, ma non farlo, alla vigilia di una manovra di assunzione di 150mila precari, sarebbe sprecare una grande occasione.