L’evidenza del fatto non può non colpire: il Politecnico di Milano, in seguito ad una delibera del senato accademico del maggio 2012, dall’anno accademico 2014-2015 terrà 29 su 34 corsi di laurea specialistica esclusivamente in lingua inglese. Ne era nata, a suo tempo, una piccola guerra interna. Alla soddisfazione del rettore che guardava alla possibilità di avere dei docenti internazionali e delle classi internazionali aveva fatto da contrappunto il vittorioso ricorso al Tar Lombardia di 150 docenti del Polimi. Anche il linguista Tullio De Mauro aveva storto il naso. Nel giugno 2013, tuttavia, la sentenza del Tar era stata impugnata dall’ateneo presso il Consiglio di Stato, in nome dell’autonomia universitaria nella definizione dei programmi formativi. A sua volta, il Consiglio di Stato non ha emesso sentenza e ha rimandato la trattazione dell’appello al prossimo novembre (2014).
Al di là dei ricorsi ai tribunali e alle battaglie di carta bollata relative a questo caso specifico, resta che il fenomeno è ormai diffuso. Al Politecnico di Torino negli ultimi sei anni sono stati chiusi diversi corsi in italiano e poi riaperti inglese. A Roma in inglese ci sono corsi di Medicina e Farmacia, oltre che di Ingegneria ed Economia, come anche a Pavia. A Bologna si annoverano corsi in lingua per le lauree magistrali in Agraria, Scienze e Tecnologia, Scienze Politiche. Si potrebbe osservare che, essendo l’università una istituzione pubblica, l’offerta di corsi in lingua madre non dovrebbe mai mancare, all’interno di un ventaglio di possibili opzioni.
Altre considerazioni ci appaiono però inevitabili. In un certo senso, la vicenda porta tutti (italofoni e anglofoni) sul banco degli imputati. In altri termini, se è ovvio difendere l’italiano come lingua madre e allo stesso tempo non chiudersi gli occhi di fronte alla inevitabile diffusione dell’inglese come lingua della comunicazione internazionale, ci sembrano altrettanto ovvie un paio di domande: quando e dove si insegna davvero l’italiano? E in secondo luogo, cosa si apprende veramente quando s’impara la lingua inglese? Sarebbe una idiozia, più che un peccato, abbandonare l’italiano come principale strumento di comprensione e approfondimento delle radici culturali dalle quali siamo nati: non ci sembra sia questa la prospettiva. Nello stesso tempo ci pare che la riduzione della lingua inglese ad un puro strumento per transazioni commerciali e operazioni di bassa didattica cognitiva sia altrettanto lesiva della dignità di questa lingua, a meno che non si voglia propagandare per inglese una lingua di scambio fortemente influenzata da espressioni sintetiche e prive di qualsiasi nesso con una cultura.
L’italiano si impara a scuola, non all’università. Se non si apprende a scuola, dopo è sempre troppo tardi. È giusto preoccuparsi di ciò che accade alla lingua madre dopo che i nostri giovani si sono diplomati, ma è di fondamentale importanza capire che la lingua della nazione si assimila soprattutto tra scuola elementare e secondaria di primo grado. In Italia, come hanno dimostrato le recenti prove Invalsi, l’italiano lo si dimentica, in alcune regioni, nella fascia di età 11-14. Segnala l’Invalsi (cfr: “Le rilevazioni degli apprendimenti 2013-14”): “A differenza delle rilevazioni precedenti, emergono minori differenze territoriali per la scuola primaria, mentre esse diventano sempre più visibili nel passaggio alla scuola secondaria di primo grado e ancora maggiormente in quella di secondo grado”. Ancora, in riferimento specifico all’italiano: “Nella prova di Italiano, le due macro-aree settentrionali registrano punteggi medi superiori alla media italiana statisticamente significativi, mentre il Centro ottiene un risultato che non si discosta dalla media nazionale. Il punteggio medio conseguito dalle due macro-aree del Sud e del Sud e Isole risulta invece significativamente inferiore alla media italiana”.
L’italiano non unisce gli italiani, bensì li divide. Il nostro Paese, come sempre a macchia di leopardo, è testimone della crescita di giovani capaci di padroneggiare abilmente la lingua madre in tutte le sue potenzialità grammaticali e argomentative e, all’opposto, dell’arenarsi di altri alle minime competenze comunicative. La riflessione investe la realtà scolastica nella quale avviene l’apprendimento: è evidente che una scuola autonoma, attenta agli studenti e ricca di stimoli educativi che derivano da insegnanti motivati, è un terreno utile anche agli apprendimenti di lingue straniere e di materie non linguistiche in lingua straniera. Ma che cosa succederà del Clil, tanto per fare un esempio (cioè appunto dell’insegnamento in lingua di materie non linguistiche) in situazioni in cui è precaria la conoscenza dell’italiano? Il treno è in corsa e sembra quasi che intere generazioni di giovani che non fruiscono per varie ragioni (ambientali, sociali, culturali) delle medesime opportunità formative di altri siano destinate a restare fermi nelle loro stazioncine. È in arrivo anche una quarta prova Invalsi per la maturità 2015 con prove anche in inglese: si vedrà.
A proposito della lingua straniera (inglese in questo caso, senza sottovalutarne altre molto richieste dagli studenti italiani) occorre anche in questo caso ribadire che occorre un interesse per apprendere, non basta il dovere o l’allettamento che deriva da una futura professione per la quale è indispensabile il multilinguismo. La lingua è grammatica ed è anche cultura. Con la lingua s’impara la storia e la tradizione di un popolo. Anche in questo caso, la scuola è fondamentale, prima ancora dell’università. Apprendere l’inglese, come avviene in tante situazioni, significa entrare a far parte, in qualche modo, di una comunità che ha ritmi, strumenti e tradizioni sue proprie. Se intesa in questo modo, anzitutto come arricchimento della persona che apprende, la lingua straniera veicola spunti che possono permettere, nella inevitabile verifica generata dall’esperienza del suo uso, anche una valorizzazione della lingua madre. D’altra parte, proprio a questo livello, non è superfluo chiedersi perché cresca continuamente nel mondo il numero delle persone che studiano l’italiano. La motivazione più diffusa è l’arricchimento culturale. Vuoi vedere che ci tocca capire il valore della lingua materna, della importanza di insegnarla correttamente e della sua eternità, da chi non è nato nella terra di Dante?