E’ alquanto improbabile che le norme previste dalla Buona Scuola siano in futuro ricomprese tra le riforme della storia scolastica italiana. Anche adesso che disponiamo di tutti gli elementi per una valutazione complessiva dell’intervento legislativo, è difficile scorgere qualche segno riformatore di ampia portata e di lunga durata. Niente che indichi un passaggio strategico come quella disegnato, per esempio, dai decreti delegati del 1974 e dalla legge sull’autonomia del 1997, neppure nulla che sia accostabile ai coraggiosi interventi del 1977 quando si rafforzò in modo decisivo il transito verso la scuola davvero aperta a tutti (oggi si direbbe “inclusiva”).
Nessuno può immaginare, ovviamente, che una riforma abbia i tempi di quella realizzata in pochi mesi nel 1923 da Giovanni Gentile, ma resta pur sempre valido il principio che c’è “riforma” quando i provvedimenti sono orientati a definire un obiettivo ordinamentale e di sistema che segnala una svolta rispetto al passato. Ciò oggi significa tracciare una evoluzione tendenziale e processuale verso uno scopo da raggiungere mediante successivi passaggi. Ecco perché a proposito di Buona Scuola non si può parlare di riforma: impossibile indicarne lo scopo unitario, indefiniti i tempi, al massimo si trovano provvisorio restauri a un impianto usurato nel tempo.
Le legge Renzi-Giannini-Fedeli passerà — non gloriosamente — agli annali soprattutto per l’immissione ope legis in ruolo di molte migliaia di docenti. Poche altre cose e certamente non di portata epocale (tra queste il timido avvio dell’alternanza scuola-lavoro, il potenziamento dell’educazione della prima infanzia se non si tradurrà in precoce scolarizzazione) meritano la citazione e qualche attenzione.
Su queste pagine sono già state sottolineate le molte opportunità mancate (autonomia scolastica, sistema federale d’istruzione, sinergie tra scuole dello Stato e scuole paritarie, ripensamento del valore legale del titolo di studio, ecc.) e non è perciò il caso di tornarvi.
Forse sarebbe stato più efficace se il legislatore avesse affrontato poche questioni molto urgenti anziché disperdersi in una miriade di problemi. Faccio qualche esempio.
1. Il primo: ripensare il ruolo e la funzione dell’ex scuola media e raccogliere intorno al suo rinnovamento e potenziamento un’ampia alleanza educativa. È di comune dominio che una quota non secondaria di allievi a partire dai 12-13 anni di età non va volentieri a scuola, che i fenomeni di bullismo precoce sono in vorticoso aumento, che è sempre più difficile gestire le classi popolate dai preadolescenti dove spesso è impresa improba trattenere l’attenzione oltre i 10-15 minuti. Basta insistere sull’acquisizione delle competenze secondo il verbo predicato in questi anni oppure non è forse il caso di cominciare a ragionare di strategie educative a largo spettro con il coinvolgimento di soggetti anche esterni alla scuola? Alcune esperienze già consolidate in varie realtà italiane dimostrano che è utile e possibile andare in questa direzione.
2. Non meno di comune dominio è il fatto — secondo esempio, ampiamente documentato dalle rilevazioni Invalsi — che un poco alla volta il nostro sistema d’istruzione si è diversificato in due, tre, forse addirittura quattro velocità. Tante le cause che sottostanno a questo fenomeno che non si possono qui approfondire. Diciamo solo che non tutte sono riconducibili soltanto alla precarietà di alcune situazioni socio-ambientali. Si può restare indifferenti a una situazione del genere? e limitarsi all’auspicio che sulla base dei dati Invalsi le scuole dagli esiti più problematici si rimbocchino le maniche e avviino progetti di reale miglioramento? Non ho mai incontrato una scuola dal profilo mediocre che ammetta di esserlo. Anzi molte scuole di questo tipo neppure leggono i dati Invalsi o, quando lo fanno, si autoassolvono rapidamente.
3. Terzo esempio. Non si può fare finta di nulla di fronte al declino dell’impiego corretto della lingua italiana. Nei mesi scorsi c’è stato l’invito di un cospicuo gruppo di studiosi e docenti universitari a prendere in seria considerazione l’eventualità di interventi straordinari per affrontare — se non proprio risolvere — il problema. Non ho alcun titolo per entrare nel merito delle possibili iniziative da avviare in tal senso sotto il profilo per così dire “tecnico”. Osservo che l’impoverimento della lingua è non solo l’anticamera dell’inaridirsi delle radici su cui si fonda la nostra appartenenza a una storia e a una cultura, ma è anche l’anticamera della perdita del senso critico e, di conseguenza, dell’esposizione, per esempio, al consumismo più banale e alla suggestione di qualsiasi credenza o bufala propagata dalla rete.
Non capire l’italiano nei suoi diversi impieghi (compreso quello culturale) e non saperlo scrivere anche solo per ragioni pratiche (un curriculum, una domanda di lavoro, un elaborato scolastico) significa perdere un pezzo della dignità personale e diventare italiani inconsapevoli. Non c’è rispetto per la differenza verso altre culture e tradizioni se non si ha chiaro chi siamo, da dove veniamo, quali sono valori i valori nei quali si riconosciamo e come sappiamo argomentare le nostre ragioni. Comunque la si giri la questione dell’italiano è strategica.
Forse sarebbe stato il caso che la Buona Scuola anziché perdersi in tanti dettagli, avesse affrontato poche questioni meritevoli di essere al centro della riflessione comune (una volta si diceva “questioni d’interesse nazionale”).