Dialogo notturno durante un’uscita didattica. Il professore legge alcuni versi di Giacomo Leopardi, in cui il poeta pone alla luna domande profonde sulla vita. Terminata la lettura uno studente a mezza voce dice: “Anche a me sorgono a volte domande simili, ma le metto da parte quasi subito perché capisco che non ho per esse risposte immediate”. Compagni e professori si pongono in dialogo a partire da tale affermazione, cercando una strada per non ridurre né sopprimere le domande esistenziali che nell’adolescenza sorgono improvvise e potenti.
Questo episodio suscita almeno due interrogativi: primo, perché al ragazzo non è mai venuto in mente di porre le sue domande agli adulti che lo circondano? Secondo: se l’avesse fatto, come avrebbero reagito gli adulti?
Spesso accade di osservare in situazioni simili uno iato preoccupante tra il mondo dei giovani e quello degli adulti: il giovane tende a non considerare l’adulto un interlocutore significativo per affrontare le problematiche più decisive che si presentano nel suo percorso di crescita. Una volta uno studente, durante un dialogo con i suoi genitori e due professori a proposito del suo comportamento scorretto e degli insuccessi scolastici, alla mia domanda: “Ma quando capisci di non farcela da solo, a chi ti puoi rivolgere per un aiuto? Guarda: chi c’è in questa stanza?” Risposta, dopo aver roteato invano lo sguardo in cerca di un volto: “Nessuno”. Spesso la percezione che hanno i ragazzi è quella di essere soli ad affrontare il mondo, di doversi arrangiare senza alcuna guida ad affrontare le sfide che la realtà pone.
Il secondo interrogativo, strettamente connesso al primo, chiama in causa gli adulti: i grandi hanno il coraggio di sostenere la sete di senso che caratterizza il giovane? Hanno qualcosa da offrirgli per mettersi in cammino alla ricerca di risposte e strade di compimento? È qui che nasce l’esigenza di quella che viene chiamata “alleanza educativa”, invocata da molti a gran voce: è possibile per un adulto da solo sostenere la vertigine dell’educazione? non spaventarsi di fronte alle domande, che spesso in modo scomposto, se non violento, i ragazzi pongono? indicare con sicurezza un metodo per affrontare la realtà in una situazione così critica come quella che stiamo vivendo?
La parola alleanza evoca scenari di guerra, quasi che il compito educativo fosse mettersi d’accordo per combattere un nemico. Non è così che va intesa. I nostri giovani non sono il nemico della nostra società, bensì sono i protagonisti della verifica del passato, la ragione del lavoro nel presente e la speranza per il futuro. Sono il punto sintetico del tempo di una società, di una civiltà. Innanzitutto l’alleanza educativa riguarda allora il rapporto fra giovani e adulti: i primi devono poter considerare interlocutori liberi e certi gli adulti, i secondi devono credere alle potenzialità della ragione, dell’operatività, della capacità affettiva dei giovani.
In secondo luogo l’alleanza educativa riguarda tutti gli adulti di una società, non appena scuola e famiglia. Certo, la famiglia ha il ruolo educativo principale nella vita di un giovane, e la scuola si fa carico di contribuire a tale formazione in primis attraverso l’istruzione, la consegna cioè di un patrimonio culturale che la famiglia da sola non sarebbe in grado di trasmettere. Patrimonio che il giovane è chiamato a sottoporre a verifica, paragonandolo con le esigenze più profonde e la sua esperienza, condizione per poterlo comprendere appieno, realizzarne le potenzialità nel presente e a sua volta tramandarlo alle future generazioni.
Ma la comunione di intenti tra adulti della scuola e adulti della famiglia può non bastare a far alzare un giovane dal divano, come auspicava nell’intramontabile discorso ai giovani Papa Francesco a Cracovia nel luglio del 2016: “L’altro ieri, parlavo dei giovani che vanno in pensione a 20 anni; oggi parlo dei giovani addormentati, imbambolati, intontiti, mentre altri — forse i più vivi, ma non i più buoni — decidono il futuro per noi. Sicuramente, per molti è più facile e vantaggioso avere dei giovani imbambolati e intontiti che confondono la felicità con un divano; per molti questo risulta più conveniente che avere giovani svegli, desiderosi di rispondere, di rispondere al sogno di Dio e a tutte le aspirazioni del cuore”.
Vi sono “altri”, “molti”, che hanno interesse a conservare i giovani in una sorta di acriticità inoperosa, i quali andrebbero interpellati e ricondotti alla ragione affinché si rendano conto del danno che fanno all’intera società impedendo ai giovani di sviluppare le loro facoltà (si pensi solo a chi ha responsabilità nell’industria del divertimento, nel mondo della comunicazione e dell’informazione, nel campo della tecnologia e della moda…). Utopico pensare di ridestare a livello planetario queste coscienze, ma l’esperienza dice che si può iniziare da chi è prossimo alla scuola e alla famiglia, per sensibilizzarlo su temi educativi importanti: l’allenatore della squadra di calcio o il gestore della società sportiva frequentata dal ragazzo, gli specialisti che lo hanno in cura, i giudici e gli avvocati a cui i genitori si rivolgono in caso di separazione e divorzio, le ditte che accolgono gli studenti nelle occasioni di alternanza scuola-lavoro…
A volte basta porre una semplice domanda per ottenere rivoluzioni in campo educativo: “Ma questa proposta, soluzione, scelta… risponde davvero al bene del ragazzo? È funzionale alla sua crescita? Pone al centro il giovane o è una strategia per garantire comodità, quieto vivere, se non potere e denaro agli adulti che lo hanno in carico?”. Spesso purtroppo sono infatti gli adulti che “confondono la felicità con un divano”, e una domanda ben posta, con determinazione e sincerità, può ridestarli e riorientare il loro delicato e affascinante compito educativo.