Una riflessione sui nodi problematici, sia culturali sia formativi, relativi al progetto CLIL, che si è svolta nell’ambito del collegio docenti di un liceo classico milanese.
Andando alle origini di questo progetto calato «dall’alto» del MIUR con carattere normativo, gli autori ne fanno emergere opportunità e criticità, per una valutazione non astratta, ma inserita nel contesto concreto della tipologia di liceo in cui operano.
Un contributo dunque che può risultare utile ai lettori che non vogliano eludere la complessità dei problemi connessi a questa modalità di insegnamento.
L’acronimo CLIL significa Content and Language Integrated Learning ed è un progetto introdotto e sostenuto dalla Comunità Europea riguardo all’insegnamento della lingua straniera in quanto se ne propone l’Apprendimento integrato di lingua e contenuto.
L’organizzazione dell’insegnamento CLIL dipende da due parametri principali: lo status che le autorità preposte all’istruzione hanno accordato alle iniziative di tipo CLIL, da una parte, e lo status delle lingue veicolari nel contesto linguistico nazionale, dall’altra.
In genere le definizioni usate a livello nazionale nei paesi della Comunità Europea traducono realtà spesso diverse.
In alcuni di questi, infatti, con tale sigla si pone maggiormente l’accento sulla componente linguistica dell’apprendimento (educazione bilingue, educazione trilingue) come per esempio in Belgio, dove esistono tre lingue nazionali (olandese, francese e tedesco), in Spagna in cui alcune comunità autonome hanno una seconda lingua ufficiale oltre lo spagnolo, oppure in Austria dove è possibile insegnare alternativamente in due lingue di istruzione, considerate di pari livello. In altri paesi invece si insiste sulle acquisizioni disciplinari degli alunni, con l’insegnamento di una materia in una lingua veicolare.
Da dove nasce il CLIL
Il CLIL nasce tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, in Canada, nel Quebec, su richiesta dei genitori anglofoni, in ambiente bilingue, come insegnamento in immersione; per rispondere a esigenze analoghe le prime esperienze in Europa vengono avviate nelle regioni in cui sono presenti minoranze linguistiche (per esempio i Paesi Bassi).
Nel 1995, in parallelo a quanto deciso nella Risoluzione del Consiglio europeo e nel Libro bianco su istruzione e formazione [8] la Commissione Europea, come strategia per far sì che i cittadini europei conoscano tre lingue, propone che nelle scuole europee la prima lingua straniera appresa diventi la lingua di insegnamento di talune discipline.
La situazione in Europa
Per descrivere le dinamiche con cui si è sviluppato il fenomeno CLIL in Europa in questo paragrafo riportiamo alcune rappresentazioni di statistiche tratte dal Report di Eurydice – A.A.V.V., Apprendimento integrato di lingua e contenuto nella scuola in Europa [4] (pp.17-20) – che si riferiscono alla situazione in Europa nell’anno scolastico 2004/2005.
Queste rilevazioni, sebbene un po’ datate, possono aiutare a comprendere il presente e ad avere una visione un po’ più ampia di quello che la situazione locale permette.
Infatti, come già si può notare dalla immagine che segue, le scelte e gli orientamenti adottati dai paesi all’interno della Comunità Europea risultano essere piuttosto diversificati.
In questa immagine in cui è rappresentata la diffusione dell’insegnamento di tipo CLIL, si può osservare che nei paesi della Comunità Europea sono state adottate combinazioni che contemplano sia l’insegnamento di lingue straniere sia di lingue regionali e/o minoritarie oppure di altra/e lingua/e ufficiale/i di Stato.
Nella prossima immagine viene invece descritta la distribuzione dell’insegnamento CLIL secondo i vari livelli di istruzione: dal livello pre-primario a quello secondario.
Dai dati qui presentati, si può dedurre che il CLIL è stato utilizzato soprattutto per salvaguardare le minoranze linguistiche, che in Europa la metodologia CLIL è parte dell’offerta scolastica ordinaria in diversi Paesi e interessa il livello scolastico primario e secondario e che in alcuni Stati viene offerta anche a livello pre-primario.
Inoltre da altre informazioni presenti nel sopracitato dossier (non riportate in questo articolo) si ricava che in alcuni Paesi per accedere a un corso CLIL, relativo a una lingua straniera (L2), è prevista una prova d’ingresso che riguarda la conoscenza della L2 o i contenuti dei programmi di studi; inoltre per quanto riguarda la disciplina da insegnare con la L2, la scelta è molto variabile e dipende dalle regioni geografiche e dalla tipologia di istituto e spazia da attività ludico-sportive, alle scienze sociali o economiche o alle materie scientifiche.
Quindi, in generale, c’è la possibilità di scegliere tra tutte le discipline. Da ciò si può dedurre che in Europa (tranne a Malta) non esiste l’obbligatorietà della scelta di una determinata disciplina.
Predominanza dell’inglese
Nell’insegnamento tradizionale delle lingue straniere in ambito scolastico, la preponderanza dell’inglese è evidente e l’insegnamento CLIL non sfugge a questa forte influenza.
Infatti, come si può notare dall’analisi dei dati riportati nella tabella sottostante, la quasi totalità dei Paesi che hanno realizzato iniziative di questo tipo propone l’inglese come lingua veicolare straniera. Questo tuttavia non impedisce che vengano offerte anche altre lingue straniere, come francese, tedesco, spagnolo e/o italiano.
Poche materie «privilegiate»
In generale, a livello primario e secondario, tutte le materie dei piani di studi possono essere inserite nell’ambito della metodologia CLIL.
Ciononostante, a livello secondario, la situazione è a volte più restrittiva; vengono infatti prese in considerazione solo alcune materie: matematica, scienze fisiche e naturali, geografia, storia, economia sono spesso oggetto delle raccomandazioni ufficiali nell’offerta CLIL.
Inoltre, l’analisi dei contributi nazionali mostra che l’acquisizione delle competenze disciplinari nelle materie che sono oggetto di questo insegnamento, sembra passare in secondo piano. In generale cioè le raccomandazioni nazionali in materia tendono a dare più importanza alle competenze linguistiche che devono essere sviluppate dall’alunno.
Profilo dell’insegnante CLIL
L’insegnamento di tipo CLIL richiede agli insegnanti, ed è ciò che caratterizza il loro profilo, la capacità di insegnare una o più materie del piano di studi in una lingua (L2) diversa da quella di insegnamento usata abitualmente e, attraverso questo processo, di insegnare la lingua stessa.
Gli insegnanti CLIL hanno, quindi, una doppia specializzazione.
Le qualifiche degli insegnanti che partecipano all’insegnamento di tipo CLIL rappresentano una questione chiave nella maggior parte dei Paesi. In effetti, non è sufficiente dare ai docenti una doppia specializzazione, in lingue e in altre discipline; è necessario dotarli anche della capacità di promuovere l’apprendimento di una materia in una lingua che l’alunno non possiede come lingua materna.
Gli insegnanti di solito sono pienamente qualificati per il livello/i di scuola loro assegnata; nella maggior parte dei casi, sono specialisti di una o più discipline, definite non linguistiche o hanno una doppia specializzazione che combina una disciplina linguistica e una non linguistica. Oltre alla qualifica per l’insegnamento, solo una minoranza di Paesi prevede prove certificative particolari. Ma nessuno dei diplomi/certificati si basa precisamente sull’insegnamento di tipo CLIL, in particolare sugli aspetti specifici di didattica.
Tutte le prove certificate, richieste in alcuni Paesi, riguardano solo le competenze e le conoscenze degli insegnanti in ambito linguistico che si aggiungono alla certificazione disciplinare specifica; è quindi normale che i diplomi/certificati aggiuntivi, se previsti, attestino le competenze legate al secondo ambito di esperienza cioè l’ambito linguistico.
Quando il CLIL viene introdotto in Italia
In Italia la metodologia CLIL è stata introdotta in tutte le scuole del livello secondario con il DPR 15/03/2010 dove, negli allegati relativi ai quadri orari per le diverse tipologie di liceo, una nota recita «è previsto l’insegnamento, in lingua straniera, di una disciplina non linguistica (CLIL) compresa nell’area delle attività e degli insegnamenti obbligatori per tutti gli studenti o nell’area degli insegnamenti attivabili dalle Istituzioni scolastiche nei limiti del contingente d’organico ad esse annualmente assegnato.»
È significativo che questa disposizione si trovi nel quadro orario, mentre negli O.S.A. (Obbiettivi Specifici di Apprendimento) non se ne fa cenno. Quindi sembra un intervento estraneo ed esterno alla genesi dell’impianto della riforma nelle sue caratteristiche culturali e didattiche per ogni disciplina.
In merito al significato della espressione disciplina non linguistica e in merito a quali discipline siano ritenute tali, un riferimento è rintracciabile nel Focus del Ministero del 31 luglio 2014, che rimanda al Protocollo 4969 del 25 luglio 2014, in cui si afferma: «Storia dell’Arte, Scienze, Geografia, Matematica, Filosofia: dal prossimo anno scolastico anche materie come queste potranno essere insegnate, per una parte delle ore curricolari, in una lingua straniera nelle classi finali dei Licei e in lingua inglese nelle classi finali degli Istituti tecnici.»
Che cosa si propone con il CLIL
Per descrivere che cosa si propone con il CLIL in Italia, riportiamo alcuni stralci tratti dall’articolo CLIL – (s)punti di partenza di Silvia Minardi [2], docente di lingua straniera presso il Liceo Classico con sperimentazione linguistica “Salvatore Quasimodo” di Magenta (Milano) e formatrice di lingua inglese per il Progetto Lingue Lombardia e per il MIUR e attuale presidente dell’Associazione LEND (Lingua e Nuova Didattica) per la quale è stata responsabile nazionale dei progetti europei.
Secondo l’autrice, al centro del CLIL sta l’integrazione tra la lingua e il contenuto in un approccio duale (dual focussed) che comprende l’apprendimento della lingua e quello del contenuto contemporaneamente (simultaneous). Il CLIL pertanto vuole essere una metodologia di insegnamento che permetta di far imparare una lingua mentre si impara un contenuto.
Alla base di questa idea gioca un ruolo importante il termine «ambiente di apprendimento». Ovvero l’intuizione che ciò che rende efficace l’apprendimento di una lingua è soprattutto il suo utilizzo in contesti significativi.
«L’obiettivo che ci si prefigge con il CLIL infatti non è tanto quello di far imparare una lingua (ciò che sappiamo di una lingua), ma di far imparare ad usarla (come usiamo ciò che sappiamo in una lingua).»
Di fatto l’ambiente il più delle volte consiste nell’uso di programmi interattivi al computer e a lezioni in cui si proiettano delle presentazioni in Power Point di cui gli studenti al momento della prova dovranno memorizzare i contenuti. È significativo che nel documento non si usi mai il termine «insegnare», ma «imparare» e «apprendere»; l’insegnamento sembra non basarsi più sulla relazione docente-discente e il coinvolgimento interpersonale che permette la condivisione di un pensiero, non viene considerato condizione fondamentale per la trasmissione di una conoscenza.
Lo scopo, molto ambizioso del CLIL, è quello di poter «raggiungere simultaneamente gli obiettivi linguistici e quelli disciplinari».
Quando poi nell’articolo si descrive la modalità con cui progettare le attività didattiche e tutti gli interventi a esse collegati, l’autrice riporta alcune indicazioni tratte dal saggio curato da Sandra Lucietto [2], in cui si afferma che per creare un ambiente duale di apprendimento è importante:
«– adattare i contenuti (sia in termini di lessico che in termini di strutture) tenendo presente che sono i contenuti disciplinari a introdurre quelli linguistici e non viceversa;
– fare in modo che i contenuti linguistici vengano esercitati ed appresi all’interno di contesti caratterizzati da contenuti disciplinari.»
È giusto chiedersi se questo non comporterà una diminuzione in estensione e profondità dei contenuti disciplinari che si dovrebbero trasmettere secondo gli O.S.A. (Obbiettivi Specifici di Apprendimento), presenti nelle Indicazioni Nazionali.
Per quanto riguarda la metodologia suggerita, riportiamo ancora alcune indicazioni.
«a) occorre prestare grande attenzione alla lingua prevedendo vere e proprie attività di supporto all’apprendimento linguistico. Per i docenti può essere utile questo strumento di lavoro indispensabile per mettere a fuoco alcune modalità di supporto linguistico in un percorso CLIL
b) l’attività linguistica su cui occorre lavorare maggiormente nei percorsi CLIL è la lettura (e solo in un secondo momento la scrittura)
c) l’organizzazione della classe va ripensata e orientata al lavoro a coppie/di gruppo e all’apprendimento cooperativo
d) una didattica per progetti può essere utile per mettere a fuoco temi o aspetti rilevanti di un tema in chiave cross-curriculare
e) occorre prevedere momenti in cui rendere esplicite e riflettere insieme agli studenti sulle strategie di apprendimento utilizzate
f) l’uso frequente di supporti non verbali favorisce la comprensione dei concetti
g) rivestono importanza particolare la correzione dell’errore, l’uso di efficaci strumenti di feedback e la valutazione».
Infine nel momento in cui si parla della valutazione degli studenti emerge in modo inequivocabile un’ambiguità di fondo.
«In sede di valutazione sarà preferibile optare per una valutazione integrata, ovvero globale, della performance sia contenutistica, sia linguistica, del discente. In questo caso, a seconda di quali saranno gli obiettivi didattici prioritari, si valuterà maggiormente la correttezza dei contenuti o quella della forma, senza dimenticare che spesso la scorrevolezza e la comprensibilità della forma rappresentano un obiettivo linguistico prioritario rispetto alla correttezza vera e propria. Infine, in alcuni particolari casi, si potrà anche optare per una valutazione distinta per i contenuti disciplinari e per quelli linguistici, anche se ciò non corrisponde proprio alla natura del CLIL.»
Nasce spontanea una domanda, ma che cosa devono imparare i nostri studenti?
La situazione nel nostro Istituto.
Attualmente nel nostro liceo (Liceo classico “G. Berchet” di Milano), come in molti altri licei del territorio nazionale, nessun insegnante delle cosiddette discipline non linguistiche ha i requisiti richiesti dal ministero per l’insegnamento CLIL; per questo motivo da due anni otto docenti, su base volontaria, stanno seguendo il corso biennale di formazione per gli insegnanti CLIL e quest’anno quattro di loro si stanno preparando per conseguire la certificazione B2 e gli altri quattro per ottenere la C1.
Probabilmente questo, nell’arco di uno o due anni, cambierà il quadro e la fisionomia degli interventi CLIL modificando, in primis, il numero e la tipologia delle discipline coinvolte.
In questa fase di transizione, i Consigli delle classi quinte nel primo anno in cui è stato introdotto questo provvedimento, cioè nell’anno scolastico 2014-15, hanno risposto in modo diversificato.
Su sette sezioni quattro si sono orientate allo svolgimento di approfondimenti e tre hanno proposto un argomento curriculare.
Le discipline coinvolte sono state: storia (2sez.), matematica (2sez.), fisica (2sez.) e storia dell’arte (1sez.). Soltanto in due casi l’inglese è stato utilizzato in lezioni frontali, negli altri è stato utilizzato per proporre letture in lingua originale. In tutte le sezioni questa attività è stata supportata in parte dalla presenza del professore di madre lingua.
Nel corrente anno scolastico (2015/2016), l’orientamento di tutti i consigli di classe, ad eccezione di una sezione in cui la scelta è caduta su storia, è stato quello di scegliere come disciplina veicolare storia dell’arte, e l’attività didattica si è concentrata sulla lettura di documenti e scritti in lingua inglese finalizzati all’approfondimento di argomenti precedentemente spiegati in italiano e la presenza del professore di madre lingua è stata ulteriormente valorizzata.
Prospettive a lungo e medio termine
Nel nostro liceo dunque, nel complesso, le soluzioni individuate dai vari consigli delle classi quinte sono orientate all’utilizzo della lingua inglese (L2) non tanto per la spiegazione di contenuti disciplinari, ma per approfondimenti o per l’arricchimento di contenuti già noti.
Questa esperienza potrebbe essere sviluppata e proposta come una strada che declini lo spirito del progetto CLIL (imparare bene una L2) secondo modalità più consone a un liceo classico in cui la formazione critico/argomentativa è obiettivo prevalente.
Se lo scopo è che gli studenti alla fine del loro percorso scolastico siano in grado di utilizzare la lingua inglese in diversi contesti e questo scopo si può perseguire senza penalizzare l’insegnamento delle varie discipline, ciò potrebbe solo giovare alla scuola.
Un altro punto su cui ci sembra importante lavorare in futuro, per rendere più efficaci questi interventi, è, una volta individuati nelle varie sezioni quali saranno gli insegnanti e le discipline coinvolte, organizzare, all’interno della programmazione dell’insegnamento della lingua inglese, un percorso propedeutico, da svolgere lungo i cinque anni, che gradualmente arricchisca la conoscenza del lessico specifico e, mediante letture, introduca all’utilizzo della lingua inglese in contesti specifici.
Un’osservazione conclusiva.
L’enfasi data dal Ministero al progetto CLIL, rispetto a tutte le altre strategie attivabili per migliorare le competenze linguistiche degli studenti, ci sembra un po’ troppo vincolante e poco valorizzatrice delle risorse e delle tradizioni che sono proprie di ogni scuola. Infatti riteniamo importante, per completare il quadro sulle attività promosse dal nostro liceo per incrementare queste competenze, ricordare che esso vanta una tradizione pluriennale di grande attenzione all’insegnamento delle lingue moderne.
Fin dai primi anni Novanta del secolo scorso, infatti, due sezioni avevano la lingua straniera quinquennale (che contemplava anche la scelta di francese e tedesco) e dal 2001 questa iniziativa ha interessato tutte le sezioni, mentre è solo con la riforma Gelmini dal 2009/2010 che questa opportunità è stata estesa a livello nazionale. Inoltre vengono attivati con grande seguito e successo, almeno da vent’anni, corsi pomeridiani di inglese per preparare gli studenti a certificazioni di livello B1, B2, C1 e dall’anno scolastico 2013/2014 l’insegnamento curricolare della lingua inglese è valorizzato dalla presenza del professore di madre lingua.
Non ultimo dal 2016/2017 si apriranno delle sezioni di liceo “Cambridge” che offriranno agli studenti una proposta metodologicamente diversa rispetto a quella del CLIL, volta allo stesso scopo.
Questioni aperte
In una realtà sempre più cosmopolita è necessario che i giovani abbiano una sufficiente conoscenza della lingua inglese ormai universalmente studiata, parlata e compresa. Ma questo obiettivo si potrebbe raggiungere mediante strategie diverse rispetto alla metodologia CLIL, perché insegnare «integralmente» una disciplina in una lingua straniera significa pensare in quella lingua e inevitabilmente assimilare una mentalità propria della cultura in cui questa lingua nasce e si sviluppa.
Il problema si pone soprattutto se l’«esposizione» alla lingua è «totale» e/o dura nel tempo.
Si sono individuati alcuni punti problematici di diversa natura, che richiedono una riflessione criticamente accorta.
Problemi linguistico-culturale
Diamo per assodato che l’insegnamento di qualunque disciplina in lingua materna sia più efficace di quello in un’altra lingua, perché nella trasmissione dei vari contenuti è importante che il registro linguistico sia molto ampio ed articolato.
Le indicazioni riportate da Silvia Minardi nel già citato articolo [2], ci sembrano molto preoccupanti: viene completamente estromessa la dimensione dialogica che nella tradizione della scuola italiana è fortemente legata alla comunicazione del sapere. Inoltre non si parla più di metodo ma di metodologia; le indicazioni citate forniscono delle tecniche separate dal contenuto e acquistano valore normativo.
La definizione di «discipline non linguistiche», attribuita alle discipline scientifiche, trascura il fatto che ogni disciplina scientifica possiede un proprio impianto linguistico concettuale. Per esempio, prendendo in esame il caso della matematica, basta guardare la scrittura di una qualsiasi formula per convincersi che si tratta di una lingua. Infatti per riconoscere e per comprenderne il significato di una sua qualsiasi espressione è necessario mettere in atto la sequenza di operazioni: pensieri-frase-nessi logici; ovvero la matematica come ogni lingua esprime un pensiero.
Quindi la decisione di considerare non linguistiche le materie scientifiche pone in evidenza una grave confusione su che cosa significhi insegnare una disciplina scientifica e si basa su una visione riduttiva dell’insegnamento, limitandolo a semplice comunicazione di informazioni e non, come dovrebbe essere, trasmissione di contenuti (pensieri e concetti) che richiede molta osservazione, riflessione e una grande capacità di argomentazione.
Il venir meno della trasmissione del linguaggio scientifico, può provocare un danno grave alla lingua locale, accelerandone la trasformazione in un dialetto, utile per la vita quotidiana, ma inutile per la cultura.
La scienza è oggi una delle aree più attive di creazione linguistica, perché ha un bisogno incessante di parole nuove per esprimere conoscenze nuove. Se la lingua non viene utilizzata, il suo potere di significare si perde tanto più in fretta quanto maggiore è la creatività del settore di riferimento (vedi in [4], Maria Luisa Villa, Perché l’inglese non ci basta, p. 78).
Di fatto stiamo assistendo al processo inverso a quello che ha visto crescere il prestigio dell’italiano come lingua di cultura con un incremento costante dal Medioevo all’età contemporanea, in rapporto al ventaglio sempre più ampio di contesti in cui l’Italiano ha soppiantato il Latino. (vedi in [4] Nicola De Blasi, Come si modifica il prestigio di una lingua, p.94).
Problemi formativi
Attualmente, l’insegnamento di tipo CLIL gode di un’opinione favorevole in molti ambienti politici e universitari, a livello sia nazionale sia europeo.
Uno dei dibattiti che anima i responsabili del sistema educativo riguarda il ruolo che questo tipo di insegnamento dovrà avere all’interno dell’offerta educativa, cioè se possa/debba essere offerto a tutti gli studenti oppure se possa essere efficace solo se rivolto ad una minoranza di alunni motivati. Per esempio in Belgio (Comunità fiamminga), Lituania, Svezia, Islanda e Norvegia, sono state espresse perplessità e la questione della lingua nazionale è spesso al centro delle discussioni.
Le preoccupazioni in merito sono molte.
Preoccupazioni di tipo didattico
L’insegnamento della lingua nazionale (di solito insegnata come lingua materna) rischia di soffrire a causa dell’insegnamento intensivo di un’altra lingua. Un’altra preoccupazione, sorta soprattutto in Svezia, riguarda la conseguenza negativa che tale insegnamento provoca sul livello di conoscenza della materia insegnata, conoscenza che risulta inferiore a quella appresa nella lingua madre.
Questo rischio non ci sembra particolarmente irrealistico visto che proprio nella definizione della sigla CLIL l’accento viene posto in modo prioritario sull’insegnamento della lingua e non tanto della disciplina.
Preoccupazioni di tipo linguistico
La lingua nazionale rischia di impoverirsi se alcuni ambiti della conoscenza sono studiati in una lingua straniera, dato che la vitalità e la ricchezza di una lingua sono legate alle esperienze delle persone che la parlano.
Su questi aspetti non abbiamo trovato statistiche significative, ma nella scuola primaria in alcuni casi si è constatato che gli studenti talora faticano ad argomentare in italiano laddove talune discipline siano insegnate in inglese.
Preoccupazioni di tipo politico
Dato che la diffusione di una lingua riflette la cultura e la cittadinanza nazionali, si teme che l’inserimento ope legis di un’altra lingua in particolari settori della conoscenza metta in pericolo la ricchezza linguistica e culturale della lingua madre.
Problemi giuridici
Di seguito sono riassunti i quesiti di tipo giuridico esposti da Paolo Grossi. (Vedi in [4], Paolo Grossi, Il valore identitario di una lingua per il singolo e per la collettività, p. 57).
È evidente poi che la disposizione del DPR 15/03/2010 impone l’utilizzo di una metodologia, cioè di una tecnica che prescinde dal contenuto che è oggetto dell’insegnamento, dalla relazione docente-discente e da tutti quegli aspetti che concorrono alla preparazione di una lezione.
In particolare ci sembra gravemente in pericolo la libertà di insegnamento. (si veda il ricorso al Tar per la Lombardia N. 01998/2012 di cento docenti del Politecnico di Milano che ha avuto esito positivo).
Conclusioni
Con queste brevi riflessioni desideriamo stimolare un dibattito in particolare tra i docenti e suscitare una posizione critica nei confronti di interventi che potrebbero incidere sulla trasmissione di quei valori, umanistici e scientifici, su cui si fonda l’identità individuale e collettiva del nostro paese.
Ancora attuale sembra essere l’invito di Petrarca a guardare contemporaneamente avanti e indietro, simul ante retroque prospiciens: per questo, senza alcuna preclusione al nuovo, si dovrebbero attuare percorsi basati più su una logica additiva, che sostitutiva, in altre parole si dovrebbe, a nostro parere, sviluppare per quanto possibile un vero bilinguismo, non ridurre la conoscenza ad un monolinguismo imposto.
Come afferma Salvatore Claudio Sgroi nel suo articolo, W l’inglese, ma non suicidiamo l’Italiano! (in [4], p. 276): «E allora lo Stato italiano […] si attrezzi per seri investimenti nella scuola […] perché l’inglese venga efficacemente insegnato, a partire dalla scuola elementare e per numero di ore settimanali e con insegnanti bilingui adeguatamente e costantemente aggiornati».
Barbara Chierichetti
(docente di Matematica e Fisica al Liceo classico “G. Berchet” di Milano)
Brunella Pisani
(docente di Italiano e Latino al Liceo classico “G. Berchet” di Milano)
Indicazioni bibliografiche e sitografiche
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D. Wolff – Alcuni principi di didattica e di metodo del CLIL – Goethe-Institut – 2007
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S. Minardi – CLIL – (s)punti di partenza – LEND (Lingua E Nuova Didattica) – 2010
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S. Lucietto (a cura di), … e allora … CLIL!, Trento, Provincia Autonoma di Trento – IPRASE del Trentino – 2008
-
A.A.V.V. – Apprendimento integrato di lingua e contenuto (Content and Language Integrated Learning – CLIL) nella scuola in Europa 2006 – Eurydice – La rete di informazione sull’istruzione in Europa – 2005
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N. Maraschio e D. De Martino, Fuori l’Italiano dall’università? Inglese, internazionalizzazione politica linguistica, Editori Laterza, Roma-Bari – 2013.
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G. Gobber – Riflessioni sul progetto CLIL – Content and Language Integrated Learning in: Emmeciquadro, n° 48 marzo 2013
-
G. Gobber – Inglese vs italiano L’omologazione è in agguato (per entrambi) – ilsussidiario.net – febbraio 2015
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M. E. Bergamaschini – I nodi del CLIL e l’urgenza di una assunzione critica. Intervista a Luca Montecchi, in: Emmeciquadro, n° 58 settembre 2015
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E. Cresson – Libro bianco su istruzione e formazione (Insegnare e Apprendere – Verso la società conoscitiva) – 1996.
© Pubblicato sul n° 60 di Emmeciquadro