In questo terzo contributo sul tema dell’attenzione l’autore si interroga sulla possibilità di salvaguardare e valorizzare la sua importanza per il conoscere e l’apprendere, nelle mutate condizioni generali determinate dell’affermazione della tecnica e della tecnologia nella società e nella mentalità odierna.
Lo snodo decisivo sembra consistere nel restituire ossigeno e respiro non solo all’attenzione, ma anche, su scala più vasta, al conoscere, attraverso una più avvertita consapevolezza, da parte docente, dell’ampiezza e della profondità di campo del reale.
Il primo contributo dell’autore su questo stesso tema: “Nuovi media, Istruzione ed E-ducazione. Qualche paletto pedagogico intorno a cui riflettere” è stato pubblicato sul n. 49 – Giugno 2013; il secondo: “L’attenzione. Le sue forme e la loro rilevanza per l’insegnamento” sul n. 63 – Dicembre 2016
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In due precedenti contributi ho cercato di individuare i principali motivi che rendono oggi problematica l’attenzione a scuola e di porre in rilievo le sue forme elementari. Ora vorrei riflettere sul compito che attende chi insegna.
I termini della questione
Riassumendo: dentro e fuori le aule, l’attenzione non sembra definitivamente scomparsa o perduta. Quando si desta, tuttavia, con più fatica (soprattutto in classe) rispetto al passato, essa assume forme perlopiù deboli e circoscritte, incapaci di durare oltre lo stimolo iniziale o l’eventuale rinforzo.
Ciò accade in un contesto più generale di mentalità nel quale alunni e studenti, per tante ragioni, stentano a percepire la scuola e gli insegnanti come partner significativi per la propria crescita; e sul quale, più in profondità, grava l’ipoteca di una riduzione del respiro del vivere, che tende a produrre da un lato un’impasse rinunciataria, dall’altro una chiusura pressoché totale in se stessi1.
Verso la fine del secondo contributo formulavo l’ipotesi che, nel contesto scolastico attuale, in parte l’insorgere, ma soprattutto lo sviluppo e la maturazione dell’attenzione siano frenati soprattutto da due costellazioni di fattori.
La prima ruota attorno alla crescente prevalenza, nell’alunno – nel suo habitus ordinario, nella sua disposizione di fondo di ogni giorno verso le cose – del momento interattivo su quello recettivo.
La seconda, nel docente, prende la forma di un’impostazione dell’insegnamento che non sembra tener conto in maniera adeguata della maggiore problematicità odierna del conoscere.
Vorrei approfondire questa ipotesi, partendo dall’effetto più critico prodotto dalla tecnica sul modo di entrare in rapporto con la realtà e di conoscerla.
In un articolo di qualche anno fa, dopo aver notato che la tecnica non costituisce più solo un semplice strumento operativo, ma anche e soprattutto un ambiente di relazioni e di scambio e un’interfaccia sempre più mediatrice fra noi e le cose, descrivevo questo effetto come «invasione tecnologica e mediatica della vita»2.
Osservavo poi che tale invasione può portare con sé, oltre a effetti specifici di vario tipo (come le modificazioni di struttura dei processi cognitivi o nuove forme di dipendenza), anche una specie d’inversione del sentimento fondamentale del vivere, che induce a considerare primo e naturale ciò che, in verità, è piuttosto secondo e artificiale, in quanto prodotto del nostro agire e del nostro fare (per quanto poi incida sul nostro essere).
Di qui, sul piano educativo e pedagogico, la necessità non solo di imparare a usare e a governare le tecnologie via via disponibili e il crescente potere che esse mettono nelle nostre mani, ma anche, più in radice, di aver cura e di salvaguardare la postura di base dell’esistere, imparando a riconoscere come significativo già il semplice «esserci» delle cose e dell’uomo; quando è il caso, anche lavorando a riconquistare tale postura, attraverso una «fisioterapia» dei sensi e dell’intelligenza, che rimetta entrambi, per così dire, con i piedi per terra3.
La cecità indotta dall’assolutismo della tecnica
Andiamo subito al fondo della questione: far credito all’incontro vivo con la realtà, che rappresenta il momento sorgivo dell’attenzione, e accogliere il reale come significativo già nel suo darsi immediato, guardandolo con vera apertura mentale e lasciandosi, alla lettera, provocare da esso, non è affatto familiare alla nostra mentalità, figlia di quasi due secoli di positivismo.
Questa mentalità induce a pensare esattamente il contrario: «scienza razionale e tecnica esatta» – notava Romano Guardini (1885-1968) nel 1954 – «hanno la tendenza a far apparire l’accadere come ovvio» e a espungere da esso la percezione che il dato possegga di per sé un senso4.
Guardini continuava domandandosi qual era l’immagine del mondo che la nostra epoca sentiva come normativa e quali fossero i criteri di valore prevalenti. Anticipando ciò che oggi si verifica in proporzioni esponenziali rispetto ad allora, egli osservava che «forse si può dire che sono anzitutto valori di dominio a determinare il sentimento della vita». Di un certo tipo di dominio, però: quello che «mette in dubbio se le cose in assoluto siano fondate su un’essenza», e perciò considera il reale come un mero magazzino di materiali e di energie che sta alla scienza indagare e inventariare, alla volontà scegliere più o meno ad arbitrio e alla tecnica assemblare e utilizzare.
Qual è, in sintesi, l’effetto di una mentalità di questo tipo sul modo d’incontrare e di conoscere la realtà?
Scrive Benedetto XVI in Caritas in Veritate: «L’assolutismo della tecnica tende a produrre un’incapacità di percepire ciò che non si spiega con la semplice materia. Eppure, tutti gli uomini sperimentano i tanti aspetti immateriali e spirituali della loro vita. Conoscere non è solo un atto materiale, perché il conosciuto nasconde sempre qualcosa che va al di là del dato empirico. Ogni nostra conoscenza, anche la più semplice, è sempre un piccolo prodigio, perché non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali che adoperiamo. In ogni verità c’è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati, nell’amore che riceviamo c’è sempre qualcosa che ci sorprende. Non dovremmo mai cessare di stupirci davanti a questi prodigi. In ogni conoscenza e in ogni atto d’amore l’anima dell’uomo sperimenta un “di più” che assomiglia molto a un dono ricevuto, a un’altezza a cui ci sentiamo elevati»5 .
L’enciclica prosegue sottolineando la necessità di attuare lo sviluppo dell’uomo e dei popoli anche su questo piano, senza cioè trascurare o negare la dimensione spirituale. Di passaggio, tuttavia, essa ha descritto in modo mirabile l’intreccio dei fattori che entrano a comporre il fenomeno e l’esperienza del conoscere.
L’ampiezza di campo del reale …
Che rilevanza ha l’osservazione di Benedetto per la nostra questione?
Anzitutto essa suggerisce di correlare il fenomeno dell’attenzione a quello più ampio e generale del conoscere, e la sua maggiore problematicità odierna alla crisi profonda che ha investito da alcuni decenni le disposizioni elementari del vivere umano – come appunto il conoscere, l’agire, il creare, l’entrare in relazione con sé, gli altri e le cose6.
Ora, come l’attenzione, anche il conoscere è un atto vivo, unitario e complesso, che può riuscire oppure fallire, nel quale s’intrecciano e al quale concorrono una pluralità di fattori: il dato empirico; lo strumento di conoscenza di volta in volta impiegato; la dimensione materiale e quella immateriale del processo conoscitivo e del suo «risultato»; il loro contesto; la densità e la stratificazione d’essere dell’atto del conoscere e del conosciuto; il «di più» che li precede e si fa avanti come manifestazione di un’essenza, di un ordinamento o di un significato; la gratuità dell’essere che viene sperimentata come forza che colma l’atto, desta stupore in chi lo compie, fa percepire il suo accadere come un dono e un prodigio7.
Se vedo bene, questi fattori – oltre che suggerire che il conoscere non è solo un processo mentale, ma anche (e più ancora) un atto di tutta la persona8 – disegnano, soprattutto i primi, l’ampiezza di campo del reale ex parte objecti: cioè della realtà come oggetto di conoscenza, che il conoscere va a esplorare nei suoi tanti aspetti e particolari.
Questi fattori non appaiono «riducibili» l’uno all’altro: sono, piuttosto, qualitativamente distinti e solo così significativi, singolarmente e nel loro complesso. Costituiscono la costellazione dei tratti peculiari e specifici del reale in quanto «conosciuto» – percepibili e riconoscibili, per così dire, sul versante dell’atto conoscitivo che dà «dalla parte» delle cose.
Se è così, essi possono valere anche per l’insegnante come criteri sia euristici sia di orientamento della didattica.
Averli, e tenerli, ben presenti, può formare e consolidare in lui l’attitudine e la sensibilità necessarie per sorprendere e riconoscere dove, e grazie a quale di questi tratti o aspetti, l’attenzione si accende effettivamente nell’alunno; e poi aiutarlo a prendere in carico e ad assecondare la traiettoria di sviluppo dell’attenzione medesima, cioè a guidarla, partendo da ciò che l’ha destata e procedendo – attraverso i passi che fanno del lavoro e del conoscere in classe un’avventura sempre nuova, «sospesa» al dialogo con i propri studenti: domande, osservazioni, obiezioni; nessi, ipotesi, argomentazioni… – da questo agli altri fattori, che, per il fatto di non essere comparsi inizialmente in primo piano, non sono tuttavia meno meritevoli di considerazione, e vengono così portati a formare, composti insieme, la visione sintetica dell’argomento o problema.
… e la sua profondità
La realtà possiede tuttavia non solo un’ampiezza, ma anche una profondità di campo – quella cui alludono gli ultimi due fattori indicati da Papa Benedetto. La si può ricono-scere se si guarda alla densità dell’atto del conoscere ex parte subjecti – cioè sorprendendo che cosa l’impatto con il reale suscita nell’uomo come soggetto conoscente, attraverso e più in là dell’interazione immediata in cui sembrerebbe, secondo la mentalità dominante, che tutto debba risolversi.
John Dewey (1859-1952) ha già messo in rilievo un tratto di questa profondità di cam-po, sottolineando il fatto che l’attenzione inizia a durare oltre l’attimo più o meno breve del suo accendersi quando il ragazzo comincia a intuire la struttura teleologica del divenire e dell’agire (vale a dire, il nesso che unisce il presente di entrambi al loro fine, anche solo confusamente presentito).
In un altro saggio, egualmente importante per lo sviluppo della sua concezione pedagogica, il filosofo americano offre un’ulteriore preziosa indicazione quando osserva che, di fronte all’insorgere di un interesse nell’alunno, la cosa più importante non è fissarsi su di esso ed enfatizzarlo, ma domandarsi quale «capacità» stia affiorando in esso: «Io credo che agli interessi del fanciullo non si deve indulgere, né li si devono reprimere. Reprimere un interesse significa sostituire l’adulto al fanciullo, e indebolire in tal modo la curiosità e la prontezza intellettuale, sopprimere l’iniziativa e mortificare l’interesse stesso. Indulgere agli interessi significa sostituire ciò che è effimero e destinato a passare a ciò che è permanente. L’interesse è sempre il segno di qualche potere celato; la cosa importante è di scoprirlo. Indulgere all’interesse vuol dire mancare di penetrare sotto la superficie, e il risultato sicuro è la sostituzione del capriccio e del ghiribizzo all’interesse genuino»9
Ancora Guardini può aiutarci a completare il quadro. In uno dei suoi saggi più maturi, dedicato al fenomeno e all’esperienza religiosa, dopo aver brevemente definito l’esperienza come «un contatto con il reale; un venir toccati, colpiti, sconvolti dalla realtà»10, che precede e innesca il conoscere vero e proprio, egli passa a descrivere le «domande fondamentali che il pensiero solleva dinanzi a qualsiasi dato – cosa, fatto, stato, rapporto»11 in cui s’imbatte.
Queste domande hanno per oggetto, rispettivamente, dapprima le cause e il principio da cui le cose provengono, i fini e il fine cui tendono, la loro verità e il loro valore intrinseco – e poi la relazione che intercorre fra queste domande e il singolo essere umano in cui si destano, che le avverte come decisive per sé, e alle quali non può non cercare risposta12.
Anche quest’architettura complessiva del domandare può offrire un utile suggerimento euristico e didattico all’insegnante alle prese con il problema dell’attenzione. Essa, in-fatti, disegna con chiarezza la profondità di campo che, attraverso il domandare, l’incontro con la realtà dischiude all’intelligenza e le prospetta come territorio in cui inoltrarsi, indagando e riflettendo.
La ragione, come nucleo distintivo della consapevolezza che l’uomo ha di sé, riconosce in questa profondità di campo il fattore che le corrisponde più intimamente come termine del proprio cercare, cioè la verità: percepisce in modo vivo e intenso che la questione del significato delle cose non è (positivisticamente parlando) un optional per visionari, ma la stoffa di cui è fatta e l’ossigeno di cui vive. E anche in questo caso l’ampiezza e l’articolazione dell’architettura si rivelano importanti, per spalancare e formare lo sguardo e l’intelligenza dell’insegnante a riconoscere dove, e in che modo, l’attrattiva del vero si fa strada nell’accendersi dell’attenzione. E questo vale non solo per lo studente, ma anche per l’insegnante.
Il compito: una fisioterapia critica dei sensi e dell’intelligenza
Forse potremmo riassumere attorno a due coordinate principali il compito che la situa-zione fin qui descritta pone all’insegnante.
Questo compito consiste, per un verso, nel rimuovere – attraverso un’opera maieutica che si potrebbe chiamare di «critica della ragion breve» – l’ipoteca che due secoli di positivismo hanno inscritto sull’habitus conoscitivo oggi prevalente. Questa ipoteca ci ha abituati a dare per ovvio l’accadere degli eventi e l’imbattersi nelle cose, depotenziando la densità del reale come «dato», frammentando la sua unità e riducendola frequentemente ai soli aspetti misurabili o manipolabili; e poi trattenendo, per così dire, la ragione dallo spingersi più in là della registrazione delle correlazioni tra dati e processi e dell’individuazione delle relazioni causali sottostanti13.
In questo modo, tale ipoteca ha favorito il formarsi di un’inclinazione a neutralizzare in partenza la «sollecitazione alla ricerca del significato», che viene «dal rapporto originario con le cose»: «Il positivismo che domina la mentalità dell’uomo moderno […] esclude l’invito a scoprire il significato che ci vien rivolto proprio dall’impatto originario e immediato con le cose. Vorrebbe imporre all’uomo di fermarsi a ciò che appare. E questo è soffocante»14.
Cose e problemi posseggono già di per sé, senza che ci sia bisogno di circondarli di particolari artifici, come ricordava Dewey, «un potere di attrazione inerente», in grado di mobilitare i sensi e l’intelligenza. Ma occorre portare i sensi e l’intelligenza «davanti» alle cose e ai problemi, e anche viceversa, perché cose e problemi possano essere realmente visti e percepiti; e disinnescare l’ipoteca positivista, che vorrebbe fermare nella trappola dell’immediatezza, o tutt’al più dell’interazione, la tensione del conoscere.
L’insegnante dev’essere consapevole di questo pericolo incombente nell’impostare il proprio lavoro, nella scelta dei contenuti e dei metodi, nel modo di condurre l’ora di lezione e di svolgere gli argomenti, nell’atteggiamento di fondo da avere con gli alunni – e con tutto.
Per indicare la seconda coordinata ho usato, in apertura, la parola «fisioterapia».
Volevo anzitutto sottolineare la necessità di rimettere i sensi e l’intelligenza con i piedi per terra, in contatto effettivo e pieno con cose ed eventi.
Ora – pensando anche a quanto precocemente i dispositivi tecnologici vengono messi in mano a bambini e ragazzi – direi che possiamo usare il termine anche nella sua accezione propriamente «motoria», perché, nella situazione attuale di crisi, il docente deve spesso fare i conti con una mobilità contratta o limitata, quando non involuta, dei sensi e dell’intelligenza dello studente; deve sondare la loro residua elasticità (cioè quanto si è conservato sano della loro originale e immediata apertura alla realtà), prenderla in carico e condurla pazientemente a riconquistare lo spettro completo delle sue capacità di movimento e di percezione.
Critica della ragion breve e fisioterapia dei sensi e dell’intelligenza non vanno intese come momenti indipendenti e successivi, staccati l’uno dall’altro, ma piuttosto come coordinate del medesimo sguardo e della medesima intenzione con cui l’insegnante entra in rapporto, dentro e fuori l’aula, con i propri studenti.
Sarà l’accadere di questo rapporto e della lezione a far emergere in primo piano l’una, e a collocare temporaneamente sullo sfondo l’altra, e poi a cambiare la disposizione. Entrambe sono tuttavia egualmente importanti e decisive.
È a partire di qui, mi sembra, che si potrà continuare a riflettere e a cercare le migliori soluzioni anche rispetto a due ulteriori questioni, particolarmente rilevanti per il nostro tema.
La prima è la dialettica fra habitus interattivo e habitus recettivo, sulla quale ho richiamato l’attenzione nello scorso intervento. Essa sembra delinearsi in maniera sempre più marcata e pervasiva, man mano che il bambino cresce – in famiglia, a scuola e nella società.
Che possibilità ci sono che l’enfasi sempre più forte sul primo habitus, sostenuta anche dalla crescente presenza delle tecnologie in ambito scolastico e formativo, non comporti come conseguenza la svalutazione e l’emarginazione del secondo dalla prassi didattica ed educativa – e, a cascata, anche dalla formazione intellettuale e culturale delle giovani generazioni?
A mio giudizio, sarebbe veramente doloroso, prima ancora che controproducente, che l’habitus recettivo, attorno al quale la natura polarizza inizialmente la crescita e l’apprendimento, non venga adeguatamente salvaguardato e protetto dalla forte pressione sociale e mediale che tende a «formattare» sempre più precocemente il conoscere, l’agire e il relazionarsi del bambino, del ragazzo e dell’adolescente sulla misura, i dispositivi e gli schemi mentali dell’adulto – insegnante, genitore, o altro che sia.
Ciò significherebbe, come lucidamente ha avvertito Hannah Arendt (1906-1975), mortificare, attraverso tale omologazione, la novità che ogni generazione introduce nel mondo.
La seconda questione concerne la possibilità che le impostazioni oggi prevalenti nell’insegnamento riescano effettivamente ad apprestare l’humus di cui l’attenzione ha bisogno per accendersi e fiorire (humus ampiamente descritto, negli interventi precedenti, non solo di chi scrive).
Con buona approssimazione si può dire che oggi la maggior parte dei docenti – con relative differenze nei vari ordini e gradi di scuola, ma sostanzialmente in modo analogo – concepisce il proprio agire professionale in termini e secondo modelli prevalentemente trasmissivi o costruttivistici dell’insegnamento e dell’apprendimento.
Questi modelli rendono giustizia all’intensità di momenti, di dinamismi e di orizzonti del conoscere, e a fortiori dell’attenzione, sopra evidenziati? Quale spazio, quale peso e quale gioco riconoscono all’incontro vivo con la realtà, in tutta la sua ricchezza e il suo spessore, come baricentro e asse della formazione scolastica e intellettuale?
Se posso esprimere una valutazione, credo che la povertà culturale e la debolezza di pensiero emergente fra le generazioni più giovani (e di cui sempre più spesso anche i media, di tutti i tipi, offrono sconsolante documentazione), debbano sollevare più di un interrogativo sulle prassi didattiche e pedagogiche prevalenti, negli ultimi vent’anni, nel nostro sistema scolastico.
Alle maestre che si preparavano a insegnare nelle Case dei Bambini, Maria Montessori (1870-1968) ricordava che «la lezione è un appello all’attenzione»15. E aggiungeva: «Se l’oggetto risponde agli intimi desideri del bambino e rappresenta qualcosa che li soddisferà, incita il bambino a una prolungata attività, poiché egli se ne rende padrone e continua a usarlo».
Per questo motivo, «le parole non sono sempre necessarie», e quando devono essere usate, non ci si deve mai dimenticare che la prima caratteristica della lezione dev’essere la sua «brevità». La seconda consiste nella «semplicità», vale a dire «nell’esser priva di tutto ciò che non è assoluta verità»; e la terza nella «obiettività», che significa «che la personalità della maestra scompare, e in evidenza rimane soltanto l’oggetto, su cui desidera che si concentri l’attenzione del bambino».
La Montessori si rivolgeva a persone che avrebbero svolto la professione docente a contatto con bambine e bambini nella prima infanzia.
Forse – certo, tenuto conto del mutare dei tempi e delle circostanze – le sue parole possono avere qualcosa da dire, oggi, anche a tutti gli altri insegnanti.
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Carlo Fedeli
(Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione, Università di Torino)
Note
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1 Papa Francesco allude spesso a questa ipoteca con le immagini del «divano» su cui ci si accomoda, del «balcone~ o della «finestra» da cui si guarda il mondo come spettatori, della «anestesia» prodotta dalla «cultura dell’indifferenza», dei «calcolati mondi concettuali» che separano dalla realtà.
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C. Fedeli, Nuovi media, istruzione ed educazione. Qualche paletto pedagogico intorno a cui riflettere, in Emmeciquadro, n. 49 – Giugno 2013,
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Penso, per fare un esempio, all’esperimento tentato qualche mese fa in una scuola media del Man-tovano: gli studenti sono stati invitati ad astenersi completamente dall’uso dei cellulari e degli altri dispositivi elettronici per 48 ore. È interessante vedere il modo in cui la proposta è stata concepita, accolta o rifiutata, le ragioni addotte e gli effetti che si sono verificati: cfr. S. Ricotta, Più annoiati ma più liberi ragazzi in astinenza da cellulare, La Stampa, 25 aprile 2017.
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R. Guardini, La situazione dell’uomo, in Id., Natura – Cultura – Cristianesimo, Morcelliana, Bre-scia 1983, pp. 191-209, qui p. 202. Le citazioni successive sono alla pagina seguente.
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Benedetto XVI, Caritas in Veritate, 77.
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Si tratta di una crisi complessiva della postura esistenziale dell’uomo, cui María Zambrano ha dedicato acute riflessioni, e su cui bisognerebbe soffermarsi più analiticamente: si veda, per una prima messa a fuoco, M. Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina, Milano 1996.
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Chiedo scusa al lettore per la densità concettuale di questo paragrafo. Lo invito a leggere, per vedere in atto con molta più immediatezza quanto qui riassunto, una pagina molto bella di Max Planck, nella quale egli osserva che cosa accade «appena il bambino comincia a pensare»: cfr. M. Planck, Significato e limiti della scienza esatta, in Id., La conoscenza del mondo fisico, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 354ss.
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Qui bisognerebbe aprire una lunga digressione sull’enciclopedia moderna del sapere pedagogico, che con l’intento di circoscrivere e studiare in modo sempre più preciso e specialistico le varie facoltà umane ha spesso finito per disarticolarle dall’unità che le regge e di cui sono espressione, con la conseguente riduzione – e impoverimento – dell’atto della persona a processo funzionale. Anche su questo punto può essere utile, per cogliere luminosamente il fattore senza del quale l’atto si riduce a processo, leggere il capitolo di Come un romanzo in cui Pennac descrive l’acquisizione della capacità di scrivere la parola «mamma» e di intenderne il significato come «la scoperta della pietra filosofale»: cfr. D. Pennac, Come un romanzo, Feltrinelli, Milano 200715, pp. 31-33.
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J. Dewey, Il mio credo pedagogico. Antologia di scritti sull’educazione, Scelta, introduzione e annotazioni a cura di L. Borghi, La Nuova Italia, Firenze, 19655, p. 22. Il corsivo è mio.
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R. Guardini, Fenomenologia e teoria della religione, in Id., Scritti filosofici, a cura di G. Sommavilla, Fabbri, Milano 1964, vol. II, p. 281.
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Ivi, pp. 283.
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Anche qui sarebbe opportuno ripercorrere le pagine dell’autore, per cogliere l’ampiezza e la fi-nezza della fenomenologia qui riassunta in modo estremamente conciso: cfr. R. Guardini, Fenomenologia e teoria …, cit., pp. 283-299.
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Di qui quella riduzione dell’ampiezza della ragione e del suo uso, che Benedetto XVI ha posto in rilievo nella sua lectio a Ratisbona, insieme all’invito ad allargare la nostra immagine e concezione di essa.
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L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 151.
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M. Montessori, La scoperta del bambino, Garzanti, Milano 19705, p. 17. A questa e alla pagina successiva anche le citazioni seguenti.
© Pubblicato sul n° 65 di Emmeciquadro