Osservando queste elezioni presidenziali dagli Stati Uniti ma con occhi italiani, non si può non rimanere strabiliati dal fenomeno messianico associato alla candidatura di Barack Obama. I sostenitori del senatore dell’Illinois (che secondo i sondaggi ammontano ormai ad una maggioranza della popolazione intenzionata a votare il 4 novembre), guardano al loro candidato come ad un “contenitore presidenziale aperto, in cui molti riversano i loro sogni politici” (Daniel Henninger, Wall Street Journal). Nessuno sa esattamente cosa farà Obama una volta eletto presidente (Obama stesso e la sua campagna elettorale hanno dichiarato tutto e il contrario di tutto), ma molti suoi elettori sono certi che egli “chiuderà il capitolo delle ferite sanguinanti della vecchia politica e guiderà la nostra nave verso una montagna di speranza, e pianterà la nostra bandiera sull’aurora di mille domani con una promessa americana che non morirà mai”, come ha descritto ironicamente David Brooks sul New York Times.
Naturalmente, il fatto che un cittadino afroamericano sia stato scelto come candidato presidente di uno dei due maggiori partiti americani e che si appresti a vincere queste elezioni, ha una valenza simbolica e storica enorme, in un paese che solo 40 anni fa accettava comunemente vergognose pratiche di segregazione razziale, almeno in alcuni stati. Lo stesso McCain ha recentemente ammesso: “C’è stato un tempo in cui invitare a cena un cittadino afroamericano alla Casa Bianca era considerato un oltraggio e un insulto in molti ambienti. Oggi viviamo in un altro mondo rispetto al crudele e altezzoso razzismo di quei tempi. Che liberazione! Qualunque sarà il risultato del mese prossimo, il senatore Obama ha realizzato una cosa grande per se stesso e per il suo paese e mi congratulo con lui”. Ma allo stesso tempo sembra irragionevole assumere che l’elezione di un cittadino afroamericano alla presidenza degli Stati Uniti sarà di per sé sufficiente a sanare tutte le divisioni e le ingiustizie del paese, come molti si aspettano.
Allo stesso modo, queste elezioni sono state variamente descritte come le più importanti della storia americana recente. Il candidato vicepresidente Joe Biden, che ha servito come senatore per ben 36 anni (e dovrebbe ben conoscere i limiti e le delusioni del potere), ha dato voce al sentire comune, quando ha affermato che “questa è l’elezione più importante in cui abbiate mai votato in tutta la vostra vita”. Peggy Noonan analizza acutamente tale atteggiamento nella sua rubrica settimanale sul Wall Street Journal: “seguiamo le elezioni così appassionatamente perché abbiamo paura. Temiamo che molti dei nostri problemi nazionali siano intrattabili, e il futuro troppo pieno di sfide. Ma non possiamo sopportare di sentirci così. Per cui ci sforziamo di credere che le elezioni possano cambiare tutto. E le seguiamo appassionatamente per convincerci che il risultato sarà decisivo e cambierà ogni cosa per il meglio”.
Una simile aspettativa verso un candidato o un appuntamento elettorale è praticamente incomprensibile per noi italiani, abituati a pensare (non senza un fondo di verità) che chiunque vinca un’elezione potrà fare ben poco per cambiare la situazione esistente. Ancora più stupefacente è che ad avere una simile attesa per il “messia” Obama siano gli intellettuali, gli accademici e i giornalisti liberal, ovvero quelli che dovrebbero essere più esperti e smaliziati di fronte alle promesse della politica. Eppure tale atteggiamento di attesa per l’esito elettorale mette in mostra una delle principali virtù del popolo americano, il suo fondamentale ottimismo (che noi saremmo tentati di definire “ingenuità”), la sua fede incrollabile e talvolta irragionevole in un futuro migliore (“domani è un altro giorno”). Il successo del “contenitore vuoto” Obama testimonia che il desiderio di giustizia del popolo americano è ancora vivo e vegeto, pronto a rispondere quando vi si faccia appello.
Allo stesso tempo, questo fenomeno di attesa risulta fondamentalmente estraneo alla tradizione politica degli Stati Uniti. La dichiarazione di indipendenza afferma infatti “che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità; che allo scopo di garantire questi diritti, sono creati fra gli uomini i Governi, i quali derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati”. Durante tutta la sua storia, questo paese è rimasto fedele all’affermazione che i diritti fondamentali dell’individuo e soprattutto la sua capacità di perseguire la felicità non siano una concessione o un esito della politica: anzi, gli americani hanno sempre guardato con grande sospetto ai politici che promettevano di “farli felici”. Il fenomeno Obama rappresenta quindi un’inquietante deviazione da uno dei principi portanti della società americana: per la prima volta nella sua storia, questo popolo si appresta a riporre la propria speranza nell’esito di un processo politico.
(Maria Elena Monzani, Menlo Park, California. Lavora come ingegnere fisico presso lo SLAC National Accelerator Laboratory)