Tutto è cominciato lo scorso 23 agosto, o meglio sarebbe dire che quel giorno tutto è venuto a conoscenza dell’Occidente. Da molto più tempo infatti si susseguono omicidi e stragi ai danni dei cristiani in India, per non parlare del perenne isolamento e della costante discriminazione cui sono sottoposti. L’India non è che un esempio al quale possono tranquillamente seguire numerosi altri contesti geografici che vedono il perpetrarsi di atroci persecuzioni contro gli appartenenti alla religione cristiana. Ogni tanto, col beneplacito della stampa, qualche nome, qualche caso viene onorato dalle cronache, Timor Est, Corea del Nord, Arabia Saudita, Libano, Egitto, Sudan e via dicendo, per poi ricadere nell’oblio collettivo, nel dimenticatoio generale. Ora è la volta dell’Orissa, regione fino a pochi giorni fa sconosciuta ai più, e a torto. Infatti da molti decenni questo territorio rappresenta un tetro scenario di persecuzione e ingiustizia.
Lo scorso 23 agosto Swami Laxmanananda, noto capo dell’induismo radicale, è stato assassinato da militanti maoisti. La colpa del crimine è ricaduta sui cristiani per voce dei maggiorenti delle comunità induiste radicali presenti nella regione, Praveen Togadia, leader del movimento Vishwa Hindu Parishad (VHP) e Ram Madav alla guida del gruppo Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS). In realtà uno dei motivi per cui i cristiani sono mal tollerati nella regione risiede nel fatto che il proselitismo e l’evangelizzazione da questi effettuati coinvolgano i “paria”, gli “intoccabili”, ovverosia, stando alla religione induista, l’ultima casta di individui in ordine di importanza sociale. Si tratta di persone povere ed emarginate alle quali il popolo cristiano rivolge la propria attenzione e il proprio annuncio di salvezza. Come ha commentato Sua Eminenza il Cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della CEI: «di fronte a questi fatti non sento reazioni di sincero sdegno, di condanna e di richiamo. La Chiesa da sempre annuncia che tutti siamo uguali e fratelli, interviene là dove c’è bisogno della promozione umana e sociale, è aperta a tutti e non discrimina in base a nulla, tanto meno alla fede. Viene da chiedersi se si possa negare l’aiuto umano per non suscitare negli altri simpatia, benevolenza, vicinanza. In una parola, quello che oggi viene interpretato come colpevole proselitismo. Non temiamo le persecuzioni, ma non possiamo esimerci dall’alzare la voce, come ha fatto il Papa, e dire che è ingiusto e che la libertà religiosa e di culto è un diritto per tutti nel rispetto della sicurezza sociale».
Intanto la persecuzione continua. Ieri sono state date alle fiamme quattro chiese cattoliche, e la campagna anticristiana s’è allargata anche verso le regioni centrali del subcontinente indiano, nel Madya Pradesh e nel Karnataka. Una delegazione formata da numerosi personaggi della cultura e dello spettacolo indiani, parlamentari cattolici, e dalle Eccellenze Monsignor Raphael Cheenath, arcivescovo di Cuttack-Bhubaneshwar, capoluogo della regione, Vincent Concessao, arcivescovo di Nuova Delhi e padre Babu Joseph, rappresentante CEI, ha incontrato stamattina Shrimati Pratibha Patil, il presidente della Confederazione Indiana. La rappresentanza ha consegnato un memorandum per chiedere la ferma condanna, già formalmente formulata dal capo del governo Manmohan Singh, degli episodi di violenza, e per far cessare immediatamente questa spirale d’odio.
La polizia sta indicendo numerosi coprifuoco a macchia d’olio, ossia laddove si manifestino scontri, ma la protezione offerta dalle forze dell’ordine rimane comunque scarsa e inefficiente. Lo testimonia quanto accaduto a Chitradurga, nel Karnataka, dove, sotto lo sguardo impassibile dei poliziotti, il reverendo protestante N. Kumar della chiesa di Sharon, è stato selvaggiamente picchiato da un gruppo di fondamentalisti e i suoi fedeli segnati sulla fronte con un pigmento rosso, simbolo della “riconversione” all’induismo.