Nelle ultime settimane, Barack Obama ha completato il giro delle nomine di governo e ha lavorato dietro le quinte per ammansire i critici del partito democratico. Nei delicati momenti di divisione della torta, i dem sono apparsi tesi e sempre a un passo dal fratricidio.
Il personaggio meno digerito è Leon Panetta, l’italoamericano che Obama ha nominato come nuovo direttore della Cia. Contro Panetta si sono levate diverse voci stizzite, con un acuto della senatrice californiana Dianne Feinstein, capo della commissione per l’intelligence al Senato.
Feinstein ha spinto sul fatto che Panetta non ha un background da uomo di intelligence, che è uno troppo fuori dal giro e l’ha buttata infine sulla questione di principio, facendo sapere al presidente eletto – e al mondo intero – tutta la sua indignazione per non essere stata consultata nella scelta.
Diversi senatori si sono uniti al coro di protesta e per qualche giorno il caso ha tenuto banco nei corridoi di Capitol Hill; a margine dell’insediamento del 111esimo Congresso, anche il vicepresidente eletto, Joe Biden, ha lasciato perplessi i cronisti definendo un “errore” non avere consultato gli esperti di intelligence del Senato, come se si presentasse con la doppia etichetta di congressman e vicepresidente. Obama infine ha smorzato i toni con una formale ammenda per avere fatto di testa propria, ma lasciando intendere che il presidente degli Stati Uniti serve proprio a questo.
La nomina di Leon Panetta è il simbolo della libertà di Obama, che affida un incarico delicato – forse il più delicato per alcune “issue” come il trattamento speciale dei prigionieri – a un personaggio smaccatamente estraneo alla burocrazia di Langley e alle logiche paludate dell’intelligence.
In ottemperanza ai principi obamiani, Panetta è un diligente clintoniano. Ha servito come capo dello staff alla Casa Bianca negli anni di Clinton, dopo essere entrato nella politica di Washington con qualche incarico nell’amministrazione Nixon, e può vantare una grossa esperienza al Congresso. Il personaggio non deve dunque sforzarsi per compiacere i centristi clintoniani – di cui la nuova amministrazione abbonda -, e la cosa aggiunge un fattore di stabilità al variegato universo di Obama.
Formalmente Panetta si è sempre occupato di budget e pubblica amministrazione, con qualche escursione negli affari esteri e a questo cursus deve le critiche che oggi gli piovono addosso; di fatto, un capo dello staff alla Casa Bianca sa quanto è necessario per dirigere la Cia, e forte di questo Obama sorride ai critici e tira dritto.
Per il nuovo presidente eletto è fondamentale avere alla Cia un uomo di fiducia prima che un tecnico. Obama sa che a Langley i tecnici abbondano e vuole essere sicuro di evitare il destino del presidente uscente, George Bush, ostacolato in ogni modo dalla Cia durante i suoi otto anni di governo.
Panetta è anche un ottimo sponsor contro tortura e tecniche speciali negli interrogatori. Sul magazine Washington Monthly, Panetta ha detto chiaramente di non ammettere nessuna violazione della dignità umana in nessuna circostanza, anche quando si ritiene che una violazione dei diritti possa giovare alla sicurezza nazionale: «Chi sostiene la tortura crede che si possa abusare dei detenuti in alcune particolari circostanze e essere ugualmente fedeli ai principi della nazione. Ma questo è un falso compromesso. O crediamo nella dignità dell’individuo o non ci crediamo, non c’è una terza via».
Affermazioni che si accordano a meraviglia con il proposito di Obama di chiudere il carcere speciale di Guantanamo, anche se la firma di un executive order prospettata dal presidente eletto non ne implica affatto la chiusura immediata. L’effettiva chiusura di Guantanamo richiede tempo, forse anche un anno, ma l’annuncio catalizza consensi immediati. E un direttore della Cia accondiscendente semplifica di molto il lavoro.
(Mattia Ferraresi)