Una politica estera saggia è per definizione quella che sa commisurare le azioni alle prevedibili conseguenze. Il blitz delle forze armate israeliane che la notte tra domenica e lunedì ha causato 19 morti al largo della Striscia di Gaza, su una nave di un convoglio battente bandiera turca che portava viveri ed altri aiuti alle popolazioni palestinesi di Gaza è uno di quegli eventi che potremmo definire “fuori scala”.
Ovviamente ancora poco si sa sui dettagli e la dinamica esatta verrà analizzata da una Commissione ad hoc dell’Onu. Ma resta comunque il fatto politico, che ci spinge a riflettere sulle ragioni e sulle conseguenze degli esiti tragici di un’azione non militare.
Il convoglio era partito dalla Turchia, dove una delle principali associazioni caritatevoli del Paese aveva allestito una folta delegazione di 700 persone per trasportare aiuti a Gaza, rompendo esplicitamente e dichiaratamente il blocco navale imposto da Israele all’indomani dell’Operazione Piombo Fuso.
Il governo israeliano, avvertito della missione, aveva fatto sapere che avrebbe accettato di scortare le 6 navi verso il porto di Adohot, a sud di Tel Aviv, dove avrebbe ispezionato il carico delle navi e pensato a trasportare gli aiuti verso Gaza. Non è andata, come noto, esattamente così. Già a Cipro le navi erano state intercettate e bloccate per due giorni dalla Marina greca. Poi il viaggio era proseguito, fino all’esito conosciuto.
Insomma: oggi il conflitto israelo-palestinese, e le sue conseguenze geopolitiche, tornano ad assumere una priorità alta nelle agende politiche internazionali. A cominciare da quella della Casa Bianca, la quale fino a ora aveva tenuto un profilo politico discreto rispetto alla questione, ben sapendo di dover raffreddare i rapporti con lo Stato ebraico.
Non per vocazione, certo. Ma perché gli stessi generali del Pentagono hanno fatto sapere a Obama che, vista l’entità dell’impegno militare Usa in Medio Oriente (Iraq e Afghanistan in particolare) un supporto incondizionato alla causa di Israele avrebbe reso più arduo il compito politico di favorire il ritiro delle truppe nel prossimo biennio dai due teatri.
E in effetti il gelo che è calato tra Washington e Gerusalemme a seguito del noto incidente diplomatico sulle colonie di Gerusalemme Est, alla presenza del vice Presidente Joe Biden, è stato solo lo svelamento di una precisa tattica politica.
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La percezione americana era quella del ribaltamento dei passi da conseguire: costruire prima una nuova rete di sicurezza e di relazioni nell’area mediorientale (con la Siria, il Libano, l’Iraq e con particolare attenzione al dossier iraniano), quindi volgere sguardo e attenzione alla issue israelo-palestinese.
Anche perché l’inerzia politica stava portando all’affermazione di una nuova classe dirigente in Palestinese (il premier Fayyad è considerato un “cavallo di razza”) e andavano stemperandosi i pregiudizi verso il ruolo di Hamas.
Lasciato al vuoto pneumatico del disimpegno Usa, lo spazio geopolitico palestinese è stato riempito in questi anni proprio dalla Turchia, la quale, accantonate le frustrazioni per il mancato ingresso nell’Unione Europea, sta modellando la sua identità sempre più su una dimensione regionale “neo-ottomana”. Ankara sa di poter essere un ponte formidabile sul dossier nucleare iraniano e sulla prossimità laica ai governi arabi. Insomma: un interlocutore ideale per l’America.
Il governo di Erdogan non ha certo sponsorizzato la missione umanitaria. Ma ne conosceva tempi, modi e dettagli. È evidente che questo tentativo pacifico di forzare il blocco israeliano doveva servire a una capitalizzazione politica enorme per la Turchia.
Sul fronte israeliano è evidente il nervosismo con il quale è stata percepita anche questa iniziativa. Ormai lo Stato ebraico vive una condizione di schizofrenia rapportabile alla sindrome da accerchiamento. I pericoli oggettivi ci sono e sono rilevanti: la minaccia nucleare iraniana, l’inverno demografico, la crisi economica. Ma è evidente che il dossier legato alla sicurezza rimane quello principale.
Con l’epilogo tragico del raid al largo di Gaza purtroppo Israele non ha fatto il suo bene. Ma la comunità internazionale, a cominciare dall’Ue, deve farsi un approfondito esame di coscienza. Per capire se l’inerzia uccide più delle bombe.