Caro direttore,
venerdì 11 marzo, alle 14.45, stavo bevendo un caffè con un collega nel cortile del mio istituto di ricerca a Kodaira, un’ora di treno a ovest di Tokyo, quando la terra ha iniziato a tremare sotto i nostri piedi con una forza spaventosa.
Ero in un grande spazio aperto e ricordo le automobili parcheggiate che ondeggiavano come fossero barche. Presto il cortile si è riempito di persone che uscivano dall’edificio e che, pur mantenendo una compostezza e un controllo che davano conforto, lasciavano trasparire in volto la paura.
Siamo stati tutti lì per alcuni lunghi minuti, mentre la terra continuava a tremare senza tregua, guardandoci sgomenti. Si capiva che la scossa era forte, ma in realtà non avevamo ancora capito la portata dell’evento. Finita la scossa, ci siamo recati al sesto piano, nel nostro laboratorio, dove il pavimento era coperto di oggetti caduti dalle mensole e dalle librerie.
Sono poi iniziate altre scosse, assai meno forti, che continuavano a farci tremare quasi ininterrottamente, fino a quella avvenuta circa mezz’ora dopo la prima, per la quale io e i colleghi ci siamo rifugiati sotto le scrivanie. Anche quella era durata a lungo. Quanto? Chissà, probabilmente meno di quanto non fosse sembrato. Era stato comunque un tempo sufficiente per farmi decidere che era il momento di tornare a casa. Più di un’ora di treno di viaggio mi aspettava.
Sono arrivato alla stazione intorno alle 4, dove un crocchio di gente era adunata a guardare gli schermi che proiettavano le prime immagini dei danni del terremoto e dello tsunami. La mia linea ferroviaria era interrotta e così ho deciso di incamminarmi a piedi fino a un’altra stazione, più grande, dove speravo che forse i treni fossero funzionanti. Arrivato lì ho capito subito che i trasporti in tutta Tokyo erano bloccati.
Intanto inziava a scendere il buio della sera, che purtroppo era anche particolarmente fredda quel giorno. Mentre camminavo le strade iniziavano a riempirsi di auto e presto il traffico fu completamente congestionato. Potevo solo camminare seguendo la linea ferroviaria, sperando che intanto la situazione si stabilizzasse e qualche treno ripartisse.
Più camminavo e più era evidente che il mio problema era il problema di tutti. I taxi erano irreperibili e le strade iniziavano a riempirsi di migliaia di persone, che silenziosamente e ordinatamente, camminavano con i volti sbigottiti.
Ricordo un silenzio surreale. Un ordine e una compostezza che erano chiaramente segno di uno sforzo comune di coordinare tutte le operazioni al meglio. Un popolo evidentemente abituato ed educato da sempre a gestire questi eventi. Mi ritrovai a camminare per 4 ore, mentre ormai il cielo era completamente nero, ma le strade piene di lunghissime file di persone in processione, verso chissà dove.
Chissà quante di loro non sarebbero state in grado di raggiungere le proprie case, viste le distanze che mediamente un pendolare di Tokyo copre quotidianamente con i treni e le metropolitane. Dopo questa estenuante camminata decisi di provare a prendere un autobus e poi, quasi miracolosamente, riuscii a trovare un taxi disponibile, ma presto mi resi conto che si procedeva assai più velocemente a piedi che con qualunque veicolo stradale.
Fortunatamente, verso le dieci di sera, arrivai nei pressi di una linea ferroviaria che funzionava e che mi avrebbe portato in circa mezz’ora a Shinjuku, una delle aree piuù intensamente popolate del cuore di Tokyo. Arrivato lì lo spettacolo era impressionate. In stazione erano presenti decine di migliaia di persone in attesa di un treno che probabilmente non sarebbe passato per tutta la notte.
Gente ferma immobile o accasciata per terra. Ma lo spettacolo era ancora più impressionante quando uscii nella grande piazza, dove c’erano altre decine di migliaia di persone, nel mezzo dei maestosi grattacieli della città, ancora tutti illuminati e perfettamente illesi, che in un silenzio solenne, immobilizzate dalla paura, guardavano un mega schermo grande come tutta la facciata di un palazzo che trasmetteva le ultime agghiaccianti immagini dello tsunami.
Ero arrivato nel cuore di Tokyo, a mezz’ora a piedi da casa mia. Percorsi quella strada sempre accompagnato da code interminabili di auto e da fiumi di persone in processione silenziosa. Ma era un silenzio carico di paura, che si udiva molto chiaramente. La città, la febbricitante e sfavillante Tokyo dei grattacieli era tutta perfettamente integra. Faceva impressione accorgersi della perfezione di quelle architetture.
Edifici alti fino a 400 metri, che sotto le scosse di un terremoto di grado 9 della scala Richter, non mostravano neanche un vetro incrinato. Ma la super-efficientissima Tokyo quella sera era paralizzata e in preda al terrore. Un terrore, nell’emergenza, gestito con la stessa efficienza della solita routine quotidiana. Raggiunsi così la mia casa alla 1:30 del sabato.
Il sabato fu una giornata completamente diversa. Tranquillissima. In realta’ spettrale. Tokyo era ancora lì. Tutta eretta nella sua maestosità incredibilmente inalterata dal sisma e resa ancora piuù bella da un sole quasi primaverile. Eppure era una città fantasma. I milioni di persone che avevo visto il giorno prima riempire ogni angolo della strada erano scomparsi completamente. Le strade quasi del tutto vuote. E l’atmosfera, il silenzio, era incredibilmente lo stesso. Si respirava la stessa aria del giorno prima.
Il vuoto della città comunicava lo stesso terrore dei volti delle persone del giorno prima. Intanto le notizie si susseguivano, spesso frammentarie e contrastanti, e iniziava a paventarsi lo spettro di un incidente nucleare per i danni della centrale di Fukushima, a circa 250 Km da Tokyo.
Domenica 13 mi incontrai con degli amici per passare insieme questi momenti di angoscia e seguire gli aggiornamenti minuto per minuto. La paura era tanta e purtroppo verso l’ora di pranzo le notizie fornite dai giornali esteri iniziarono a peggiorare rapidamente. Il numero di reattori nucleari a rischio sembrava aumentare.
Si parlava del rischio di piogge tossiche nei giorni successivi e si prospettava la possibilità di nuove forti scosse con conseguenti tsunami nei giorni successivi. Intanto le ambasciate di Francia, Svizzera e Germania iniziavano a consigliare ai connazionali di lasciare Tokyo, se possibile, per il rischio nucleare. Fu così che io con 7 amici decidemmo di partire verso Hiroshima, 900 Km più a sud di Tokyo, per monitorare a distanza le evoluzioni dei giorni successivi.
Il Giappone, nel mezzo della tragedia del sisma ancora in corso, riviveva, dopo 60 anni, la paura di un nuovo disastro nucleare e noi proprio ad Hiroshima trovavamo il nostro rifugio.
(Gabriele Di Comite)