Al di là della pur urgente fase del “pronto soccorso”, adesso è più che mai il caso che il nostro governo mantenga il sangue freddo e cominci davvero a promuovere un grande piano euro-mediterraneo di sviluppo condiviso: una politica che l’Italia avrebbe dovuto fare almeno da almeno quindici – vent’anni a questa parte, e che invece nessun governo di Roma ha mai fatto: non l’attuale, ma nemmeno i governi di centro-sinistra che l’hanno preceduto.
Con la sua purtroppo consueta incapacità di fare un uso ben graduato della propria grande forza, il governo di Washington ha ordinato il “congelamento” di tutti i depositi e gli investimenti libici negli Usa, pari a oltre 30 miliardi di dollari, senza distinguere tra beni personali di Gheddafi e dei suoi familiari e beni della Repubblica di Libia o di altri soggetti. Tale blocco va perciò anche a colpire la Libyan Investment Authority, il “fondo sovrano” libico che detiene tra l’altro quote importanti del capitale di grandi aziende italiane tra cui il gruppo bancario Unicredit e la Fiat. Quest’ultima, come si sa, è poi divenuta oggi una parte, e non la parte maggiore (anche se l’Italia ufficiale fa finta che non sia così), del gruppo Chrysler/Fiat, il cui più importante azionista è – ironia della sorte – il governo degli Stati Uniti.
Fatta la frittata, adesso in molte segrete stanze a Washington e altrove ci si sta grattando la pera per vedere come evitare da un lato che il “congelamento” si vanifichi, ma dall’altro che tale blocco indiscriminato non finisca per ritorcersi contro lo stesso governo americano e contro la già non brillante economia del nostro Paese. Stando così le cose, il sottosegretario di Stato Hillary Clinton, seguendo anche il consiglio del premier britannico David Cameron, ha avanzato l’ipotesi di imporre al governo di Tripoli una “no-fly zone”, ovvero un blocco dello spazio aereo sulle regioni che sono sfuggite al suo controllo.
È la ripresa di una formula che nell’Iraq di Saddam Hussein consentì al Kurdistan di sottrarsi di fatto alla sovranità del governo di Bagdad. In forza di esso infatti le potenze che lo proclamano si assumono in esclusiva il diritto di pattugliare lo spazio aereo oggetto del blocco, il che serve non tanto a impedirne il sorvolo da parte degli aerei governativi (che in casi del genere o non ci sono più, o comunque non sono più in grado di muoversi) quando a precludere alle forze terrestri governative l’accesso o anche solo la permanenza sul territorio sottostante la “no-fly zone”. È dunque possibile, anche se adesso è ancora troppo presto per poterne essere certi, che gli Stati Uniti puntino a patrocinare un distacco de facto della Cirenaica, dove la rivolta nata ed ha avuto pieno successo, dalla Tripolitania, dove se non Gheddafi in persona quantomeno un regime per così dire “gheddafiano” potrebbe in qualche modo continuare.
Ancora una volta insomma come già troppe altre volte è accaduto (cominciando dal Medio Oriente alla fine della Prima guerra mondiale per arrivare all’Afghanistan all’inizio di questo secolo), l’intervento delle potenze nordatlantiche in un’area di crisi la trasformerebbe in un’area di instabilità permanente. Non è questo l’interesse di un Paese come l’Italia, e nemmeno dell’Unione Europea nel suo insieme, anche se il Nordeuropa non se ne rende finora conto. Grazie al suo fitto intreccio di relazioni con la Libia e con i libici, come già ho scritto in questi giorni, l’Italia ha molte carte da giocare per far sì che fra qualche mese non si debba mestamente concludere che in Libia si stava meglio quando si stava peggio. Speriamo che le usi.
La riva Sud del Mediterraneo ha due pilastri: a levante l’Egitto, 78 milioni di abitanti e 2450 dollari di reddito pro capite annuo, e a ponente l’Algeria, oltre 34 milioni di abitanti e circa 4030 dollari di reddito pro capite. Ci sarebbe da preoccuparsi veramente solo se l’Egitto e l’Algeria sprofondassero nel caos: un’eventualità che per il momento si può escludere. Con i suoi oltre 9.500 dollari di reddito pro capite la Libia è sì il paese più ricco del Nordafrica, ma con soltanto poco più di cinque milioni e mezzo di abitanti, un territorio enorme (1.775.500 kmq) che non è in grado di controllare effettivamente e un’assoluta dipendenza dalle esportazioni di idrocarburi, malgrado tutte le attuali tragiche turbolenze, non soltanto a lungo ma anche a medio termine non potrà che tendere alla stabilizzazione. Un processo che beninteso sarà tanto più rapido quanto più l’Italia, principale interlocutore europeo della Libia, saprà assecondarlo. In tale prospettiva occorre però evitare di rifare l’errore dell’“intervento umanitario” …a mano armata che provocherebbe in Libia squilibri poi ben difficilmente rimediabili, e causerebbe inoltre contraccolpi incontrollabili nei Paesi con cui essa confina, l’Egitto e la Tunisia, entrambi impegnati in un’ardua fase di transizione da un vecchio regime autoritario a qualcosa di nuovo che ci si augura sia anche qualcosa di meglio.