La guerra civile continua a fare vittime su entrambe le sponde del Mediterraneo. Nella città simbolo di Misurata continuano gli scontri e il flusso di migranti verso Lampedusa non si arresta. A margine dell’intervento armato, l’Italia discute su come aiutare i ribelli e cerca una soluzione politica del conflitto.

A Tripoli scarseggia la benzina, arrivata a prezzi paragonabili a quelli italiani, manca il pane e la gente ha paura, dei bombardamenti e della repressione del regime di Gheddafi. Il rais non si fa vedere in pubblico da nove giorni, da quando la Coalizione internazionale ha bombardato la casa di Tripoli dove si trovava. Nel raid morì uno dei suoi figli, Seif el Arab, la moglie e tre nipoti del rais. Intanto il suo esercito si fa beffa della no-fly zone e, con piccoli aerei usati di solito in agricoltura, bombarda le cisterne piene di greggio a due passi da Misurata. Le ultime riserve di carburante della città se ne vanno in fumo. Nel vero senso della parola, dato che l’incendio divampato dopo il bombardamento ha avvolto la zona con fiamme altissime.



Così descrive la scena Ahmed Hassan, uno dei portavoce del Consiglio nazionale di transizione. Misurata comunque non cede: nonostante l’assedio delle truppe filo-Gheddafi vada avanti da due mesi, i ribelli non si arrendono, difendendo ogni centimetro di territorio. La città è l’ultima della regione occidentale della Libia sotto il controllo degli insorti e nei giorni scorsi è stata teatro di cruente battaglie tra le due fazioni. I sopravvissuti che riescono a fuggire da Misurata, raccontano di una carneficina: non più una guerra per riconquistare la città ma un’operazione di vendetta. I ribelli hanno anche accusato Gheddafi di aver usato elicotteri con le insegne della Croce rossa per sganciare bombe sul porto di Misurata. La Nato ha confermato la presenza di elicotteri in volo sulla città giovedì e venerdì scorso ma non la presenza del marchio della croce rossa sui velivoli. Si combatte anche a Zintan, a sud ovest di Tripoli, dove i raid aerei della Nato ieri hanno colpito un deposito di armi del governo.



Notizie di battaglie arrivano anche da Nalut, città berbera al confine con la Tunisia. E in territorio tunisino sono finiti centinaia di proiettili di mortaio lanciati dall’esercito del colonnello, senza causare danni a cose o persone. Atteggiamenti contrastanti nei confronti del rais arrivano dai clan tribali. I rappresentanti di venticinque tribù si sono riuniti oggi ad Abu Dhabi per affermare la loro unione nella lotta contro Gheddafi. Venerdì scorso invece, la Conferenza nazionale delle tribù libiche, alla fine di un incontro a Tripoli, ha invocato un’amnistia generale per i ribelli, invitandoli a deporre le armi e a riconsegnare le città. Sembra che la situazione sia a un punto di stallo: nessuna delle forze in gioco riesce a prevalere e l’intervento della Nato per ora non ha dato gli esiti sperati. Inoltre, si rincorrono diverse voci sull’assenza prolungata del colonnello dalla scena pubblica: dalla fuga alla morte sotto i bombardamenti della Coalizione. Il fronte italiano di questa guerra non è fatto di bombe, carri armati o fucili. La linea corre nel breve (ma letale) tratto di mare che separa l’Italia dalla Libia.



Qui, ormai ogni giorno, si combatte non per uccidere ma per salvare. Qui, chi fugge dalle bombe cerca una nuova vita ma molto più spesso trova la morte. Secondo stime dell’Unhcr, l’Alto commissariato Onu per i rifugiati, sono 800 le vittime del mare dallo scorso 26 marzo, quando a Lampedusa è arrivato il primo barcone dalla Libia. La situazione sull’isola siciliana è di nuovo al collasso: gli extracomunitari sono circa 1500, nonostante il costante lavoro di smistamento verso altri centri di accoglienza. L’ultimo drammatico naufragio, in ordine di tempo, si è consumato la notte del 7 maggio, a pochi metri dalle coste di Tripoli. Un barcone appena salpato, gemello di un’altra imbarcazione partita poco prima e arrivata a Lampedusa con 655 profughi a bordo, si è spaccata e ha rovesciato il suo carico umano in mare. Circa 600 somali ed eritrei: 16 cadaveri recuperati, tra cui molte donne e tre neonati, 150 dovrebbero essere sopravvissuti (il condizionale è d’obbligo), 32 sono dispersi. Di altri 400 non si hanno notizie.

È andato a buon fine il viaggio di altri 500 profughi, anche se di fronte alle coste di Lampedusa si è sfiorata la tragedia. Un barcone in avaria si è incagliato sugli scogli vicini all’isola: a decine si sono buttati in mare cercando di raggiungere la terra a nuoto. Per portare in salvo i naufraghi si è attivata una catena di salvataggio umana di forze dell’ordine, uomini della capitaneria e volontari. Le minacce di Gheddafi, «porterò la guerra in Italia», sembrano essersi concretizzate nell’uso di “armi” non convenzionali: a noi le bombe a voi i profughi. E proprio di armi ha parlato ieri il ministro degli Esteri Franco Frattini rispondendo ad alcune dichiarazioni del numero due del Consiglio nazionale di transizione. Addel Hafiz al-Ghoga ha detto di aver raggiunto un accordo con l’Italia per la fornitura di armi.

La Farnesina ha subito smentito l’esistenza dell’accordo e ha ribadito che il nostro Paese fornirà ai ribelli solo materiali per l’autodifesa, come camion e strumenti per le telecomunicazioni. Da Torino, dove partecipava alla sfilata degli alpini, è arrivata la conferma anche del ministro della Difesa Ignazio La Russa. La posizione dell’Italia era già stata espressa da Frattini in occasione della riunione del «Gruppo di contatto sulla Libia», tenutasi a Roma lo scorso 5 maggio. Ghoga sostiene che proprio in occasione di quell’incontro il nostro Paese avrebbe promesso l’invio di armi agli insorti. A margine dell’intervento militare, l’Italia cerca ancora una soluzione politica. C’è comunque un ostacolo alla pace difficile da superare, come ha ricordato il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton: il rifiuto di Gheddafi di abbandonare la nave. Un ostacolo che in un modo o nell’altro dovrà essere superato.

 

Sara Zolanetta, analista di Equilibri.net

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