In questi giorni in cui si susseguono notizie sempre più frequenti sull’imminente fine del rais, emerge una questione, fino ad ora in parte accantonata in nome del raggiungimento del prioritario obiettivo dell’annientamento del colonnello: cosa accadrà dopo? Qualunque ipotesi sul post Gheddafi sembra dipendere da una semplice ma fondamentale domanda: a chi le forze alleate cederanno il passo (seppure con le dovute cautele e i dovuti vincoli) una volta defenestrato il colonnello e come queste forze gestiranno il potere?



Se dovessimo basarci sulle dichiarazioni di coloro che oggi vengono riconosciuti da molti osservatori esterni come i legittimi interlocutori del dopo Gheddafi, il futuro apparirebbe come qualcosa di molto vicino al migliore dei mondi possibili. Libertà, giustizia, democrazia. Sono queste le parole che i ribelli continuano a proferire davanti ai giornalisti e ai politici occidentali, e sono queste le parole scritte nel documento redatto, dopo soli undici giorni dall’inizio della guerra, in cui il Consiglio nazionale di Bengasi traccia il profilo della Libia che verrà. Il futuro del Paese, o almeno, di quello che i leader del Consiglio vorrebbero costruire attraverso libere elezioni democratiche, è uno Stato laico, con un parlamento multipartitico e l’alternanza delle forze politiche al governo, uguaglianza di tutti di fronte alla legge, pari diritti tra uomini e donne, rispetto dei diritti umani. Impresa difficile se pensiamo che neppure la Turchia, assurta da più parti a modello per i Paesi della primavera araba, è riuscita al raggiungimento di tale “perfezione democratica” in tanti anni di storia e con un processo di secolarizzazione dello Stato iniziato già nel 1924 con Mustafa Kemal.



Dalla teoria alla pratica, dunque, ci sono mille ipotesi che ci portano a riproporre la domanda da cui siamo partiti: chi sono veramente i ribelli di Bengasi e come potrebbero gestire il futuro del Paese? Partiamo dalla prima questione. Chi sono i ribelli? Residui del vecchio regime intenzionati a instaurare un nuovo governo autoritario e, magari, su base confessionale, o cittadini liberi, pronti a morire per fare della Libia un Paese libero? Sono tutto questo e anche molto di più. Sono teppisti di strada ma anche studenti universitari, sono disoccupati ma anche mercanti, sono ex soldati ma anche religiosi. E poi ci sono i leader politici, alcuni dissidenti della vecchia guardia del rais, altri, per lo più a capo dei Consigli Comunali, sorti più o meno in ogni città conquistata, non ancora ben identificabili. Si tratta, in linea di massima, di intellettuali, medici, ex dissidenti e imprenditori, molti dei quali appartenenti alle vecchie famiglie molto influenti prima che Gheddafi prendesse il potere e, dunque, espressione di istanze sociali, religiose e culturali estremamente diversificate.



Molti, almeno per ora, fanno riferimento al Consiglio provvisorio di Bengasi, guidato dall’ex ministro degli Esteri del rais, Mahmoud Jabril. Il Consiglio si è dotato di un responsabile finanziario, il professor Ali Tarhouni, che vive negli Stati Uniti, ha un dottorato in economia e finanza e insegna alla Foster School of Business dell’Università di Washington e ha, inoltre, creato una divisione militare,  guidata prima da Omar El-Hariri e ora dall’ex ministro degli Interni, il generale Abdel Fattah Younis.

In apparenza questo nuovo organo avrebbe tutte le carte in regola per giocare la partita del dopo Gheddafi. Eppure nonostante le manifestazioni di fiducia da parte di molti leader occidentali, forse più per mancanza di alternative che per reale convinzione, permangono dubbi sulle intenzioni degli insorti e anche sulla capacità di gestire in maniera unitaria la transizione.

Questo ci porta alla seconda questione. In che modo verrà gestito il grande vuoto di potere del post Gheddafi? Il Consiglio provvisorio di Bengasi ha avuto il riconoscimento esterno da parte di molti degli alleati occidentali, ma ciò non implica la sua legittimazione interna, soprattutto una volta che avrà raggiunto gli obiettivi per cui è stato creato. I ribelli hanno deciso di unire le forze per tre scopi ben precisi e successivi nel tempo: lanciare un’offensiva contro Gheddafi in Tripolitania,  rovesciare il regime, evitare che gli occidentali stabiliscano una presenza nel Paese dopo l’offensiva. Una volta raggiunti tutti e tre gli obiettivi e, dunque, nel momento in cui si apriranno i giochi interni per la gestione del potere, pensare che tutte le diverse istanze religiose, politiche e sociali, che compongono le forze dei ribelli, saranno disposte a deferire la loro autorità al Consiglio, in nome della pace e della rinascita del Paese, risulta piuttosto ottimistico. Gli interessi politici ed economici che si aprono nel dopo Gheddafi sono molti e non tutti sarebbero disposti ad  accantonare gli scopi personalistici, rinunciando alla propria fetta della torta. Con buona probabilità riemergeranno quegli interessi tribali, momentaneamente sacrificati in nome del raggiungimento dell’obiettivo comune. Solo un grande sforzo diplomatico, che però non esclude un ulteriore spargimento di sangue, potrà forse evitare la divisione del Paese.

 

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