«Un incubo per Israele se vince Obama». Non poteva essere più esplicito Rupert Murdoch. Qualche giorno fa, dal suo profilo twitter il magnete australiano ha ribadito l’appoggio a Mitt Romney in modo molto deciso, quasi fragoroso. Ma, al di là della ruvida e abrasiva polemica, quale visione – se una visione davvero esiste – offre il candidato repubblicano del ruolo dell’America nel mondo? In che cosa si discosta da quella di Obama?
In una campagna elettorale, durante la quale ben poco si è parlato di temi internazionali, anche perché l’attenzione di tutti negli Stati Uniti è puntata sul grave problema della disoccupazione, l’ex governatore del Massachussets ha avuto modo di esporre le linee fondamentali della sua politica estera in discorso al Virginia Military Institute. Un discorso che occorre analizzare per cercare di individuare i punti di forza o di debolezza di un’eventuale presidenza repubblicana. «La speranza», ha affermato il candidato del Grand Old Party nel tentativo di evidenziare l’inazione dell’attuale inquilino della Casa Bianca, «non è una strategia». Il principio del leading from behind di Obama, secondo il suo sfidante, non funziona ed è al tempo stesso pericoloso. L’attentato di Bengasi ne sarebbe la cartina di tornasole più evidente.
Alla vigilia del secondo duello tra i candidati, Hillary Clinton si è assunta la piena responsabilità per negligenze o errori commessi in Libia, liberando in parte Obama da un pesante fardello. Ma ciò non ha impedito a Romney di tentare di assestare un colpo al presidente, accusandolo di non aver da subito definito come ‘terroristico’ l’attacco in cui perse la vita l’ambasciatore Chris Stevens. Una chance che il candidato repubblicano ha però mal giocato, finendo per essere smentito perfino dalla giornalista televisiva della Cnn Candy Crowley, che conduceva il dibattito dalla Hofstra University.
Qualche giorno prima in Virginia, di fronte agli studenti dell’accademia militare, Romney ha invece riproposto un ruolo più muscolare dell’America nel mondo. In questa prospettiva, devono essere considerate le roboanti dichiarazioni contrarie alla riorganizzazione delle forze armate americane annunciata lo scorso gennaio da Leon Panetta. In tal senso, le critiche di Romney non appaiono molto fondate. La nuova strategia inaugurata dall’attuale Segretario alla Difesa, infatti, che era già stata sostanzialmente pianificata dal suo predecessore repubblicano Robert Gates, costituisce un’utile razionalizzazione delle spese per progetti di sviluppo di sistemi d’arma che non hanno dato i risultati sperati (come, per esempio, il Future Combat System). In una condizione di scarsità delle risorse, causata anche dalla assai difficile congiuntura economica, si è pertanto deciso di aggiustare un bilancio della difesa sempre più onnivoro e dispendioso. D’altra parte, anche l’invito – alquanto ragionevole – agli altri Paesi della Nato a contribuire maggiormente al budget dell’Alleanza atlantica (che ricade ancora oggi quasi per intero sugli Stati Uniti), non è una novità. È, piuttosto, un mantra che viene continuamente ripetuto da qualsiasi presidente americano, ma a cui gli altri membri fanno orecchie da mercante.
Per quanto possa apparire anacronistico, l’avvertimento a Vladimir Putin su una rinnovata intransigenza statunitense nei suoi confronti rappresenta un tentativo di risposta alla maggiore imprevedibilità della Russia sullo scenario internazionale. Dopo la fine della Guerra fredda, la scacchiera su cui si sfidavano Usa e Urss è stata rovesciata. Romney sembra pertanto convinto del fatto che l’America debba saper anticipare le mosse di Mosca, piuttosto che risponderle in seconda battuta. Se così non fosse, e l’attenzione verso l’ex nemico sovietico rappresentasse soltanto la riproposizione di uno sguardo ‘vecchio’ sulla politica internazionale, sarebbe utile ricordare a Romney – e ai suoi consiglieri – che neppure la nostalgia può essere una strategia.
Più problematica è però la mancanza di una chiara e dettagliata Grand Strategy sulla Cina e sull’intero contesto dell’Asia Pacifico. L’Amministrazione democratica – e, in particolare, il Segretario di Stato Hillary Clinton – sembrano aver ben intuito che proprio l’Oriente costituisce il principale orizzonte della politica estera americana per il XXI secolo. Il contenimento di Pechino, attraverso le relazioni privilegiate con gli altri Paesi della regione (soprattutto, India e Australia), per ora sembra funzionare. Ciò che deve essere evitato, anche da parte democratica, è la volontà di rendere troppo oppressive e onerose le misure di limitazione del crescente potere sinico.
Nello speech, Romney ha ovviamente parlato anche di Medio Oriente. È stata la parte più infuocata dell’intervento, soprattutto perché poteva contare sull’onda emotiva suscitata dagli attacchi dello scorso 11 settembre in Libia. Di fronte alle trasformazioni in atto dopo l’Arab awakening, il candidato repubblicano sembra riproporre una visione attempata e per lo più superata della regione. La strategia di Obama di un parziale disengagement da questo quadrante geopolitico non ha dato (almeno fino a questo momento) risultati effettivi, ottenendo in realtà esiti ambigui e sconfortanti. Soltanto un ingenuo – o uno sfidante un po’ opportunista – poteva però pensare che l’appoggio ai movimenti rivoluzionari avrebbe portato da un giorno con l’altro all’istaurazione di istituzioni democratiche stabili e liberali.
Tuttavia, il parziale fallimento (sul breve periodo) di Obama non può essere nemmeno sostituito con l’approccio mostrato da Romney. La presenza americana in Medio Oriente – che, conta ricordarlo, già c’è e continuerà a esserci – non può ridursi a un appoggio incondizionato a Israele. Il governo di Gerusalemme continua e dovrà certamente continuare a essere un partner cruciale dell’America nella regione. Tuttavia, per il bene di Israele e dell’intero Medio Oriente, gli Stati Uniti dovrebbero mantenere una propria autonomia strategica e decisionale in ogni situazione critica che si presenterà all’orizzonte. Un’autonomia che potrebbe anche condurre il governo di Washington a sostenere priorità a difesa del proprio interesse e della propria sicurezza nazionale che si discostano da quelle di Israele.
Per quanto riguarda il programma nucleare iraniano, invece, non sembrano esserci grandi differenze tra i due contendenti alla Casa Bianca. L’intransigenza di Obama, che insieme alla comunità internazionale ha attuato un ampio sistema di sanzioni economiche, è infatti molto simile a quella annunciata da Romney. Ciò che più conta, invece, è capire la priorità che nell’ottica del candidato repubblicano hanno le diverse alternative a disposizione nei confronti del governo di Teheran.
All’interno di uno scenario regionale che è già percorso da forti linee di frattura, perenni ostilità e carsiche esplosioni di violenza, assai poco ragionevole appare inoltre la volontà di armare i ribelli siriani. Come dimostrano le esperienze di Afghanistan e Iraq, l’infiltrazione di jihadisti stranieri in contesti di guerra è assai diffusa e può produrre gravi danni nella gestione della crisi. La guerra civile in Siria – proprio per il fatto di essere una guerra civile – è ontologicamente ambigua e opaca. Qualora non sopraggiunga una sconfitta militare totale di Assad, soltanto l’invio di un contingente di peacekeeping con legittimazione internazionale – ipotesi su cui sta lavorando l’inviato Onu Lahkdar Brahimi – potrà (forse) condurre alla fine del dramma che sta vivendo il popolo siriano. È l’unica soluzione praticabile, anche se, purtroppo, viene ancora osteggiata dalla Russia e dalla Cina.
Al di là dell’eloquenza, Romney ha tenuto un discorso un po’ deludente, dove ha cercato non solo di mostrare le differenze con l’attuale presidente ma anche di smarcarsi dalle (dis)avventure di George W. Bush. Nonostante ciò, questo tentativo è stato interpretato da alcuni commentatori come una sorta di variazione sul medesimo tema: tra Obama e Romney cambia la retorica, ma non la sostanza. In realtà, una differenza tra i due candidati esiste. Mentre Romney è convinto che il «momento unipolare» degli Usa non sia esaurito e che anzi debba essere riaffermato con forza, Obama sostiene che in un sistema globale che sta velocemente cambiando l’unipolarismo non è più sostenibile e che deve essere sostituito – per ridurre i costi di gestione del potere – da una condivisione delle responsabilità tra i diversi attori internazionali.
Non sappiamo ancora che cosa succederà il 6 novembre e quale dei due sfidanti avrà la meglio. In caso di vittoria di Romney sarà certamente necessario un maggiore sforzo nell’elaborazione dottrinale della politica estera: manca, infatti, una ‘visione’ strategica del ruolo dell’America nel mondo. Se la visione di Obama è apparsa più convincente in relazione all’Asia Pacifico e meno rispetto al Medio Oriente, quella espressa da Romney deve dimostrare innanzitutto di essere all’altezza della situazione. Particolare importanza rivestirà allora la composizione della squadra che l’ex governatore del Massachussets potrebbe scegliere per guidare Foggy Bottom. La capacità e la lungimiranza degli statisti sono elementi sempre imprescindibili. Pertanto, coloro che Romney potrebbe individuare per rivestire il ruolo di Segretario di Stato e di Consigliere per la Sicurezza nazionale saranno fondamentali per comprendere i futuri passi dell’America nel sistema globale.
Lo storico americano Arthur Schlesinger Jr. ha scritto in maniera efficace e sintetica che «la politica estera è la faccia che una nazione presenta al mondo». Come sarà quella del prossimo inquilino della Casa Bianca?