Come nell’Occidente in generale così anche nell’Unione europea in particolare abbiamo tanti interessi in comune, ma non tutti. Di questo stato di cose, che sarebbe saggio e importante smettere di ignorare, il caso del Mediterraneo e del Vicino e Medio Oriente è la riprova più importante. Ai Paesi atlantici basta che questa cruciale parte del mondo sia in tregua. Per i Paesi sud europei, e quindi in primo luogo per l’Italia, ciò è necessario ma non sufficiente. Noi avremmo, anzi abbiamo urgente bisogno che tale regione – un grande mercato in crescita nonché la nostra porta verso l’Asia – sia non soltanto in tregua ma anche in pace e in sviluppo.
Le esigenze non sono opposte, ma le priorità sono diverse. Poi si tratta di renderle tra loro compatibili senza troppi attriti, ma in primo luogo tale diversità va riconosciuta. E anche su questo non ci è purtroppo di aiuto l’attuale governo, il più “atlantico” degli ultimi decenni; tanto “atlantico” che quando il suo capo ha infine pensato di candidarsi a succedere a se stesso è andato prima a dirlo a New York parlando in inglese all’esclusivo pubblico di uno dei think tanks ove si elabora la politica estera americana.
In questa situazione dispiace ma purtroppo non sorprende la passività del governo di Roma di fronte all’attuale blocco del processo di pace israelo-palestinese. Un blocco che dura ormai da quattro anni, ossia da quando in Israele è al governo Benjamin Netanyahu. Il tempo gioca a favore o contro Israele? È evidente la risposta di Netanyahu a questa domanda, che ad ogni piè sospinto torna alla ribalta della vita pubblica dello Stato ebraico. In realtà farebbe meglio a ripensarci: tutta la storia dimostra che un insediamento costiero, per forte ed efficiente che sia all’origine, a lungo termine o trova un modus vivendi con l’entroterra o viene spazzato via. Sovviene sul medesimo territorio la vicenda degli Stati crociati e altrove quella di tutte le altre esperienze analoghe: dalle antiche colonie greche e più tardi genovesi del Mar Nero agli insediamenti veneziani in Istria e Dalmazia e rispettivamente tedeschi sulla riva sud del Baltico.
Al di là di ciò, che nel caso di Israele pur non è di certo una prospettiva imminente, resta il peso immediato di un focolaio di tensione da cui più o meno derivano anche le crisi ad esso vicine, compresa quella attuale della Siria. Non mi soffermo qui di nuovo sulla situazione in Siria solo perché mi pare continui a valere a quanto già scrissi in una precedente occasione.
Frattanto però quasi ogni giorno sono nuove lacrime, nuovo sangue, nuove violenze, nuovi morti, nuove distruzioni e l’ulteriore sconquasso dell’economia e della società di un Paese importante che ormai da ben più di un anno è dilaniato dalla guerra civile. Nei proverbiali “circoli diplomatici” europei tra un cocktail e l’altro si farebbe bene a pensarci.
Dal momento che la sostanza della crisi israelo-palestinese resta in tutta la sua urgenza, la tregua in atto non dovrebbe poi indurre a tranquillizzarsi troppo. Ormai a circa a un mese dalle elezioni presidenziali americane le più diverse parti in causa preferiscono non prendere iniziativa, ma saranno pronte a farlo nel delicato periodo che seguirà, ovvero nei quasi due mesi in cui avverrà o il passaggio di consegne dal vecchio al nuovo presidente, o comunque il rimpasto del governo.
In tale quadro le scritte insultanti sui muri di un convento francescano a Gerusalemme sono un ulteriore brutto segno nient’affatto da sottovalutare. D’altro canto non va in ogni caso dimenticato che gli Stati Uniti stanno lentamente ma irreversibilmente riducendo la loro presenza nel Mediterraneo. Tende perciò a formarsi un vuoto che o l’Italia contribuisce a riempire (anche in nome e per conto dell’Unione europea) o va a provocare altra instabilità in un’area che di questo non ha proprio bisogno.