Calma piatta in Borsa. Poche operazioni e la quota giornaliera di scambi non supera i 40-50 milioni di euro – ieri gli scambi si sono fermati a 25,31 milioni. Ancora a febbraio, nel pieno dell’ondata di incertezza, gli scambi si aggiravano sui 170 milioni. Gli operatori stranieri stanno a guardare, quelli locali aspettano. “Cosa aspettiamo?”, la domanda retorica di uno di questi. “Un miracolo”, si risponde. I capital controls hanno semplicemente decretato il congelamento della Borsa di Atene. Prospettive nessuna, paura tanta.
Ancora l’altro giorno, una relazione della Bce scriveva che “le aspettative del fallimento della Grecia sono aumentate fino a luglio 2015 – e nonostante il fatto che oggi siano diminuite restano a livelli alti in ragione delle preoccupazioni circa una veloce e completa applicazione del terzo programma di finanziamento della Grecia”. Se nei corridoi dei palazzi del potere, la parola “Grexit” è stata cancellata dalla memoria, nei corridoi della Borsa circola un’insicurezza sul futuro economico che impedisce alcun movimento. Si sta semplicemente a osservare, limitando i movimenti.
La Seb (la Confindustria ellenica) ha recentemente lanciato l’allarme affermando che l’economia è ingessata. Non circola denaro e le banche non concedono credito. I miliardi che servono per la loro ricapitalizzazione non verranno riversati sul mercato, ma una parte verrà immagazzinata nelle casseforti, una parte per restituire il debito contratto con l’Ela. Manca tuttavia la liquidità. Stando a Thanasis Kalantonis, di Eurobank, una della quattro banche sistemiche, dall’inizio della crisi il totale dei soldi ritirati dagli sportelli ha raggiunto i 120 miliardi di euro (il Pil della Grecia è circa di 170 miliardi). E soltanto nell’ultimo anno i greci hanno ritirato 45 miliardi, cioè circa il 25% del Pil. L’80% di questo capitale è comunque rimasto in loco: materassi, cassette di sicurezze e casseforti. In questa situazione, continua Kalantonis, se si ristabilisce un clima di fiducia nel giro di un paio di anni potrebbero ritornare sui conti circa 25 miliardi di euro.
Appunto, un clima di fiducia. Ma difficile da ristabilire. Prima moltissimi greci dovranno fare due conti e capire quanto verranno costare loro le nuove riforme varate dal governo. Adesso è il turno di quella del sistema pensionistico. Se ne è discusso due giorni fa nel corso della riunione del consiglio di governo per la politica sociale. Si legge nel comunicato ufficiale, diffuso al termine della riunione: “La riforma del sistema pensionistico si inserisce in una strategia generale, la quale ha come scopo il ripristino della fiducia della società e in particolare delle nuove generazioni verso il sistema pensionistico e la sua possibilità di assicurare la pensione ai cittadini. Per questa ragione, la riforma dovrà assicurare i termini della sostenibilità del sistema sul lungo periodo”.
Se si usa il “bianchetto” sul preambolo politico, il testo restante annuncia tagli pesanti alle pensioni. Si calcola che quelle “alte”, cioè quelle che superano i 1.000 euro, subiranno un taglio del 20%. Inoltre verranno ricalcolate tutte sulla base di nuovi parametri, la “pensione nazionale” verrà abbassata da 487 a 382 euro e verranno aumentati i contributi a carico dell’aziende che poi non godono ottima salute. E si corre il rischio che la disoccupazione, di conseguenza, possa aumentare. L’obiettivo è risparmiare 1,4-1,7 miliardi di euro nel periodo 2017-2018, come previsto dall’accordo di Memorandum, nel quale si prevede un risparmio dell’1,9% del Pil (cioè 3,2-3,5 miliardi) per il triennio 2015-2018.
La proposta ovviamente non è piaciuta ai sindacati, i quali hanno indetto uno sciopero generale per il 3 dicembre. Prima però dovrà passare sotto il microscopio della Troika, la quale ha sempre insistito con Atene per una diminuzione dei contributi aziendali allo scopo di mantenere alto il tasso di occupazione e non abbassare ulteriormente gli stipendi. E non si sa ancora quanto “piacerà” ai parlamentari “syrizei” che saranno chiamati a votare questa riforma, perché non va dimenticato che molti di loro votano contro la loro ideologia statalista e sono vittime consapevoli del “bi-pensiero”, che significa, secondo George Orwell, “ritenere contemporaneamente valide due opinioni che si annullano a vicenda, sapendole contradditorie tra di loro e tuttavia credendo in entrambe”.