Nel 2014 sono entrati in Grecia meno di cinquantamila profughi e migranti. Nel 2015, Amnesty International stima che siano stati più di 800mila. Oggi sparsi su tutto il territorio sarebbero in 26mila, stando alle valutazione del governo. Comunque, “il problema è gestibile”, dice il vice ministro per le Politiche migratorie, Yannis Mouzalas. Il “come” sarà gestibile non è dato sapere, almeno per il momento, perché la sensazione è che il governo viva nel panico e che la macchina statale sia in panne. Di certo non si potrà continuare a improvvisare e lanciare accuse a terzi, per scaricare le proprie responsabilità, al massimo si può preparare l’opinione pubblica per lo scenario peggiore, magari con un ricavo a latere che riguarda le fredde relazioni con la Troika. Al netto: profughi in casa in cambio di richieste più conformi alle promesse del governo. E poi Mouzalas aggiunge che il confine con la Fyrom (Macedonia) non verrà riaperto. Conseguenza – parole del vice ministro – per tre o quattro anni dovremo gestire migliaia di profughi .
“La Grecia da Paese di transito si è trasformato in Paese di permanenza”. Dunque, cari sindaci – a loro ha fatto queste dichiarazioni – metteteci la buona volontà per trovare luoghi e strutture in cui ospitare profughi e migranti, perché “dobbiamo raccoglierli”. Poi lo stesso vice ministro si è spinto oltre: “È una verità scientifica che il flusso migratorio aiuta la demografia dei paesi in cui si trovano”. E ha azzardato una previsione: saranno centomila i profughi che resteranno in Grecia.
Negli ultimi due giorni sono approdati sulle isole egee orientali almeno 6000 persone. A Idomeni – punto di passaggio tra la Grecia e la Fyrom (Macedonia) – sono ammassate circa diecimila disgraziati che vivono all’addiaccio, senza servizi igienici, affamati e aiutati da volontari e vessati da speculatori – un panino e un chilo di frutta: cinque euro – in attesa di passare: ieri sono entrati nella Fyrom 500 profughi. E i giovani, capeggiati da Mustafà e Ahmed, stanno perdendo la pazienza. La situazione è incontrollabile e si corre il rischio di una esplosione di violenza.
Com’è successo in pieno centro della capitale, in un piazza che si è trasformata in un improvvisato “hotspot”. Qui due clan di giovani afgani sono arrivati alle mani per decidere a chi andavano distribuiti alcuni generi di prima necessità e vestiti. In Piazza Victorias si è già stabilito un listino prezzi: 400 euro per andare a Idomeni, 4000 per arrivare in Albania e poi attraversare l’Adriatico. Tra i profughi passeggiano anziani ateniesi con borse della spesa: distribuiscono succhi di frutta, dolci e vestiario. Una donna ha portato una carrozzina e una bambola. Alcuni di loro sono commoventi nei loro gesti di solidarietà. Come a Idomeni, e a Pireo, e in altri centri di raccolta, sparsi su tutto il territorio, sono i volontari e gente comune a prendersi cura di queste persone.
In un’intervista a un quotidiano italiano, Tispras sostiene che “in una crisi di dimensioni umanitarie la Grecia e il popolo greco rivelano il volto umano dell’Europa”. Sicuramente il popolo greco ha grandi meriti nella gestione della crisi umanitaria. Ripetiamo, sono i volontari e la gente comune coloro che cercano di aiutare queste persone. La Grecia, quella ufficiale, è alquanto assente, al punto che i 700 milioni messi a disposizione dell’Ue per i Paesi coinvolti non verranno gestiti da organismi statali, ma direttamente dalle Ong che agiscono in loco. E non si sono ancora fatti i conti sul costo – si parla per ora di un miliardo – di questa crisi, tantomeno oggi è difficile prevedere quali saranno le conseguenze sulla prossima stagione turistica.
A Idomeni l’esercito potrebbe installare alcune cucine da campo per alleviare le sofferenze di uomini, donne e bambini. Cinicamente vien da pensare che i 26mila potrebbero servire ad ammorbidire i creditori inducendoli a più miti proposte: su un piatto la gestione dei profughi, sull’altro piatto della bilancia meno tagli e riforme più morbide. Non si spiega altrimenti l’uscita di Mouzalas che dà per scontata una possibile decisione che potrebbe essere presa lunedì prossimo a Bruxelles. Dunque essere volontariamente “obbligati” risolverebbe problemi di altri Stati, in cambio i creditori abbasserebbero l’asticella delle loro richieste.
Comunque la collega avrebbe anche potuto chiedere a Tsipras se il suo governo abbia commesso degli sbagli nello specifico. Forse Tsipras le avrebbe risposto che: sì abbiamo commesso degli errori perché – spiega il primo ministro in un’intervista televisiva, in cui non bisognava essere esperti in mimica facciale per capire quando mentiva – “è possibile che non fossimo preparati perché non potevamo essere pronti per un così alto numero di flussi, tuttavia non abbiamo sottovalutato il pericolo”.
Eppure già a maggio-giugno scorso, qualcuno aveva lanciato il grido di allarme, ma il governo era impegnato nella sua “battaglia” contro i creditori e contro i fantasmi delle sue stesse promesse. A maggio-giugno scorso, i profughi che sbarcavano sulle isole egee orientali venivano sgomberati dai lungomare, imbarcati poi sbarcati a Pireo, fatti salire su pullman e fatti scendere a Piazza Omonia e poi lasciati liberi di avventurarsi in città. A chi gridava all’irresponsabilità del governo, l’allora vice ministro per le politiche migratorie rispondeva: non danno fastidio – potrei ospitarne qualcuno anche al Ministero e dormirebbero nei corridoi – e poi “prendono il sole”. Non è bastato molto tempo che si spargesse la voce che in Grecia tutto era permesso. Il ministro della Difesa, Panos Kammenos, ebbe ad affermare che mai avrebbe permesso la costruzione di un hotspot sull’isola di Kos. Promessa non mantenuta. Lo stesso ministro dichiarò, maggio dell’anno scorso, che se nel caso l’Europa avesse abbandonato la Grecia, la stessa Europa sarebbe stata invasa da profughi e “jihadisti”.
Così è iniziata la sfiducia degli europei verso il governo Tsipras e la sua politica delle “frontiere aperte” e della chiusura dei campi di raccolta. Atene prese atto del problema quando forse era troppo tardi. Oggi Tsipras fa appello alla solidarietà europea, “pacta sunt servanda” (patti che il suo governo non ha mantenuto), alla necessità di separare profughi e migranti, e di accordi di rimpatrio. Ma tutto questo vigeva già l’anno scorso. Ma nel 2015, il governo aveva la mente altrove.