Dopo il fallimento della tregua dichiarata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, durata poche ore, è la Russia che rilancia “pause umanitarie” per cinque ore al giorno per consentire ai civili di abbandonare la zona di Goutha est, sottoposta a bombardamenti continui con molte vittime civili. Secondo Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore della Difesa e oggi candidato nella lista +Europa di Emma Bonino, “fino a quando non si costringeranno a mettersi a un tavolo i tre protagonisti di questa guerra e cioè Iran, Turchia e Siria, queste tregue non saranno significative”. Teheran ha infatti già dichiarato che “gli attacchi continueranno sui sobborghi di Damasco controllati dai terroristi, mentre altrove la tregua sarà rispettata”. Per Camporini è necessaria una “Yalta del Medio Oriente” perché la vittoria contro l’Isis ha solo nascosto il male maggiore, cioè il conflitto di interessi internazionale che ha provocato una situazione insanabile e che adesso sta portando sullo scenario di guerra altre nazioni come Israele.
Camporini, dopo il fallimento della tregua Onu, lei ritiene che le pause umanitarie richieste da Mosca funzioneranno?
Sono abbastanza scettico. Questo film lo abbiamo già visto nelle guerre balcaniche: anche lì si chiamava ogni tanto una tregua per stabilire corridoi umanitari, ma durava lo spazio di un mattino. il problema è che ci sono motivi conflittuali di fondo che fino a che non verranno regolamentati con una base di accordo comune non c’è possibilità di tregue realistiche.
L’Onu ha fallito, e tregue richieste da una parte sola senza il consenso dell’altra sembrano non avere chance, è così?
Quello che sta accadendo è a dir poco una situazione drammatica. E’ vero che in questi anni la Siria ci ha abituati a tutto, ma va detto con dispiacere che lo scontro siriano non suscita più l’interesse dell’opinione pubblica. C’è in corso un massacro di civili, ma c’è anche una sorta di assuefazione alla violenza da parte dell’opinione pubblica, senz’altro generata da quella degli ultimi anni, che non spinge più a chiedere ai governi di intervenire.
Forse perché ci siamo fatti prendere dall’entusiasmo da dichiarazioni di vittoria contro l’Isis, senza pensare che in Siria la pace non sarebbe arrivata automaticamente?
Per lungo tempo ho ripetuto una litania e cioè che l’Isis era il sintomo di una malattia molto più grave. Eliminando l’Isis non si eliminava il malessere che aveva generato il conflitto.
Cioè?
Ci sono molte ragioni dietro a quello che è successo e che sta succedendo, la più rilevante delle quali, quella su cui bisognerebbe agire, è il conflitto egemonico fra le potenze della regione. L’Iran vuole a tutti i costi una presa ferrea su quel territorio e per questo sostiene Assad. Ci sono i sauditi che non tollerano questa espansione dell’area di influenza iraniana. Contemporaneamente abbiamo Erdogan che vuole ricreare l’impero ottomano e uno dei suoi più grossi ostacoli a questo progetto è l’ipotesi di una regione curdistana che goda di una forte autonomia.
Lei riesce ad immaginare delle possibilità di fronte a questo scenario?
Se uno vuole davvero risolvere questa situazione deve costringere questi signori intorno a un tavolo per una Yalta del Medio oriente. Siamo realisti, le regioni di influenza straniera sono sempre esistite nella storia per cui sarà così anche questa volta, ma siccome non si può accontentare tutti, bisogna realisticamente scontentare in egual misura tutti. In questo modo smetterebbero di uccidersi.
Una situazione che forse è dovuta alla completa assenza di una politica strategica degli Stati Uniti, che in questo conflitto hanno sempre avuto atteggiamenti ambigui?
La politica americana già dai tempi di Obama è stata fallimentare. Quando l’ex presidente americano decise di avviare operazioni militari contro l’Isis lo fece in modo puramente simbolico, dieci sortite di attacco al giorno, quando in Kosovo superavamo le 500 ed è anche più piccolo della Siria. Un gesto puramente politico ma senza nessuna volontà di incidere perché a Washington non si aveva e non si ha la più pallida idea di cosa ottenere al di là della sconfitta del terrorismo. La frase “guerra al terrore” non significa nulla.
L’Europa non è stata da meno in questo senso, è d’accordo?
Assolutamente sì, un altro motivo di questa situazione è purtroppo la totale assenza dell’Europa, una cosa gravissima, che ci fa toccare con mano quanto sia decisivo procedere sull’integrazione europea. Sono convinto che una coesione europea significativa in politica estera significherebbe tornare ad avere una influenza benefica su quello che accade intorno a noi.
Che previsione ha per la guerra in atto? Continuerà fino a quando i ribelli saranno sconfitti?
Questo è quello che sperano Assad e l’Iran, ma questa è una partita con molti giocatori, non solo due. Siamo all’inizio di un’espansione del conflitto, perché non dobbiamo dimenticare Israele. Viene indicato come il cancro da estirpare da parte iraniana: non è pensabile ipotizzare che l’Iran grazie a un rafforzamento di Assad riesca ad avere una frontiera con Israele. E infatti Israele si sta preparando ad agire, diventando il quarto attore. Chi paga sono i civili, i siriani ma anche i curdi a cui negli anni Venti del secolo scorso venne promesso uno stato, promessa mai mantenuta. Il popolo curdo è diviso in quattro paesi e ciascuno di questi è suo nemico.
(Paolo Vites)