The Banshees Of Inisherin

Si è da poco superata la metà dei titoli in concorso alla 79esima Mostra del cinema di Venezia ed ecco apparire sullo schermo più prestigioso forse il primo piccolo grande capolavoro di questa edizione: “The Banshees of Inisherin”, firmato dal britannico Martin McDonagh. Il nome poco conosciuto del regista si associa al pluripremiato “Tre manifesti a Ebbing, Missouri” nel quale il regista si era distinto per l’affresco magistrale di una cittadina di provincia, con tutti le sue inenarrabili incrostazioni patologiche.



In questa storia McDonagh ci porta in una sperduta isoletta dell’Irlanda, sua terra d’origine. Poche case, un pub, un negozio di alimentari, un porto e varia umanità. Una terra desolata, dimenticata dal mondo. Un non luogo dove non succede niente di niente e dove chiunque sa tutto di tutti. Oltremare, rimbombano le bombe della guerra civile irlandese, combattuta agli inizi del Novecento per scegliere, con le armi, se morire inglesi o irlandesi.

Ma a tenere banco, nelle conversazioni isolane, più che la guerra sembra essere l’inspiegabile litigio tra Colm (Brendan Gleason) e Patraic (Colin Farrell), migliori amici da sempre. Da un giorno all’altro il mastodontico e capelluto Colm rivela all’ormai ex amico di bevute che non gli va più “a genio” e che non vuole più nemmeno parlare con lui.

Così, dal nulla, esplode nella mente di Patraic la guerra che conta, quella dei sentimenti. Al suo sentire “semplice”, al suo sguardo che guarda solo poco più in là del proprio naso la decisione di Colm proprio non va giù. Inaccettabile, inspiegabile, dolorosa. Quello che sembra un banale diverbio diventa una tragedia, prima interiore e poi agli occhi di tutti.

McDonagh ci regala una storia tanto piccola quanto universale, raccontandoci il tormento della solitudine, dell’abbandono, della depressione, che spesso nasce per un lutto, un amore finito o un’amicizia perduta. E perdere un amico, in un paese di poche anime, è perdere molto, o quasi tutto, a seconda dei propri orizzonti.

Attori incredibili, caricature credibili, fraseggi memorabili, dettagli imperdibili.

Tutto gira perfetto, all’interno di un film visivamente scuro e cupo ma che è essenzialmente una commedia, da ridere di gusto, che lascia sensazioni profonde, ripescando quel senso di vuoto che ognuno di noi, in qualche stagione della propria vita, ha dovuto provare. Più a fondo, è una domanda di vita. Su chi essere per chi e per cosa.

Cercatelo, al cinema, e divertitevi. Il titolo italiano sarà “Gli spiriti dell’isola”.

Don’t Worry Darling

La lista dei motivi (adolescenziali) per essere qui a Venezia si chiude con la proiezione di “Don’t worry darling”, con Harry Styles, l’ex talento della boyband One Direction, sporadico frequentatore della filiera cinematografica.

Dopo aver ospitato decine di saccoapeliste della notte prima, in disordinata fila di fronte al red carpet, l’isola veneziana ha accolto migliaia di urlanti, da mattina fino a sera, in attesa di consumare quel gesto di intesa immaginaria con la propria amata star, come uno sguardo a distanza, un autografo o addirittura un selfie.

Accanto a Styles, Olivia Wilde (regista e neo compagna), Chris Pine (Kirk nei nuovi Star Trek) e l’attrice Florence Pugh (Midsommar – Il villaggio dei dannati), assente alla conferenza stampa e oggetto di fiumi di parole, sul web assetato di pettegolezzi.

A onor del vero, c’è molto più gossip che sostanza in questo film che ha qualche pregio, ma anche un enorme problema, che pesa come un macigno: semplicemente viene oltre vent’anni dopo “The Truman Show”, che in due ore, nel 1998, raccontava tutto ciò che si poteva dire sulla vita come finzione, e nel migliore modo possibile.

Oggi “Don’t worry darling” è un discreto film, piacevole, gustoso alla vista, fresco nel ritmo e ben “disegnato” nei suoi colori pastello che ci riportano agli anni Cinquanta.

Siamo in mezzo a un deserto americano, dove ha base l’immaginaria Victory, una città progettata per fabbricare felicità, presieduta da Frank, guru visionario alla Steve Jobs che regala sorrisi, auto cromate, elettrodomestici e rassicurazioni.

“Controllo, simmetria e unisono” sono le parole d’ordine di questa ordinata magia dei sensi che ha come unica regola per le signore quella di non oltrepassare i sentieri dove gli impomatati signori lavorano a “materiali innovativi”.

Atmosfera volutamente stucchevole, uomini in carriera, donne in cucina. È l’inquietante verità sociale di quel decennio, riportata idealmente ai nostri giorni.

Quando Alice (Pugh), moglie di Jack (Styles) fiuta la verità di questa finzione (che eviterò di spoilerare) la protesica città va in frantumi.

Intendiamoci, il film non è brutto. Soltanto non è granché originale. Un godereccio richiamo per tutti i negazionisti dei nostri giorni (siano essi del fronte vaccinale, politico o militare), che fiutano fantasiosi complotti dietro alla cruda tristezza di molte verità.

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