Dal 1990 ciclicamente l’Europa attiva delle misure per “contenere” l’economia italiana, che in crescita “infastidisce” Francia e Germania. Nel 1992 l’attacco alla lira, con conseguente uscita dallo Sme (Sistema monetario europeo), unita a Tangentopoli (che fece ingoiare di tutto in nome della presunta pulizia ai piani alti) portò il nostro Paese a ricontrattare malamente l’entrata nell’euro. Privatizzazioni senza vero senso (Prodi, Amato e Draghi…) e creazione di un sistema di partecipate altrettanto dannoso non portarono che all’aumento del debito pubblico, l’abbandono di Keynes da parte dei progressisti fu il vero shock per la nostra economia, flessibile da sempre.
La stabilità alla tedesca, che in realtà non è altro che rigidità legata alle vecchie logiche del “marco forte”, fu il mantra del 2000. Dopo 12 anni di tranquillità e crescita costante (nonostante le prediche tedesche e francesi) si arrivò al 2011, con un attacco frontale all’Italia: spread (indicatore più politico che tecnico in certi casi) alle stelle e una narrazione mediatica inerente il debito pubblico che rasenta quella dei migliori fantasy.
Nonostante Mario Monti, però, l’Italia mantenne la seconda manifattura in Europa, vero motore economico, il Governo dei “competenti” oltre a fare danni (esodati) non portò tuttavia a casa (per fortuna) il secondo pacchetto di privatizzazioni (tradotto, svendita del patrimonio economico italiano) che avrebbero affossato del tutto l’Italia, mettendola alla porta del G7, forse il vero obiettivo mancato.
Nonostante un neoliberismo becero (il pareggio di bilancio imposto perfino in Costituzione), l’Italia tra 2011 e 2021 è riuscita a non crollare, forte del suo scarso debito privato (il vero problema, il vero generatore di crisi, la genesi del disastro Usa 2008 iniziò per un collasso del debito privato legato ai mutui) e con un debito pubblico esposto solo d’un terzo.
Mario Draghi, costretto dalla pandemia, ha applicato politiche neokeynesiane, di fatto rinnegando il neoliberismo economico Ue, mandando su tutte le furie Bce e Commissione Ue, imbalsamate dalla figura di Mario, Giano bifronte inaspettato. L’ex Bce, infatti, consapevole che un debito pubblico alto non sia un vero problema se esposto d’un terzo, ha dato ossigeno al Paese per tutto il 2021, mettendo in fibrillazione quei progressisti neoliberisti, che per ammissione dello stesso Mario, lo tradirono a luglio 2022.
Nel mezzo una pandemia e un Pnrr che Giuseppe Conte portò a casa senza però vere garanzie, il complicato e meccanismo infatti tende a sostituire le riforme a debito, ovvero gli investimenti in settori come sanità, ricerca e scuola. Più alto è l’investimento a debito e più il welfare è di qualità in un sistema come quello italiano, assai diverso da quello anglosassone. Germania e Francia (che ha sforato negli ultimi 10 anni il tetto del 3% più e spesso del Belpaese) agiscono in tal direzione, ma omettono a bilancio aiuti di Stato a Pmi e grandi aziende. La Germania ha nazionalizzato le imprese energetiche in default, ma l’intervento non è andato a debito, come a debito non ha messo il salvataggio del sistema bancario e i soldi a Lufthansa (un 30% annuo, cifre astronomiche rispetto ad Alitalia, che nelle statistiche internazionali offriva un servizio più di qualità).
Arriviamo al 2023, partiamo dall’assioma iniziale: è vero che contro l’inflazione non c’è altra arma che il rialzo dei tassi, ma non si capisce davvero (e non c’è ironia) perché a Francoforte (anche la sede della Bce andrebbe rivista, sarebbe più corretta una rotazione) abbiano cambiato la politica sugli acquisti dei titoli di Stato europei in un momento già economicamente molto complesso e difficile, tra la guerra di Ucraina e una crisi energetica che taglierà i consumi.
Per il ministro Guido Crosetto “si tratta di un cambio repentino che rischia di avere un effetto particolarmente negativo su di noi. L’Italia ha un debito pubblico altissimo, solo che questo fattore non ha pesato negli ultimi anni perché c’è stato il whatever it takes di Draghi. Le condizioni esterne, tassi, inflazione, allentamento dei parametri, sono state fantastiche, con la Bce che ha costruito un grandissimo ombrello sulle emissioni dei titoli”. Adesso invece è cambiato tutto ed è il colmo che la Bce non tuteli i Paesi dell’Unione.
La riflessione di Guido Crosetto fa pensare: “Basta guardare alla Legge di bilancio: oltre venti miliardi in più rispetto allo scorso anno per pagare gli interessi sul debito pubblico. Senza inflazione e tassi si sarebbero fatti maggiori investimenti nell’economia e si sarebbe scongiurato l’aumento delle accise sulla benzina o il taglio della rivalutazione di alcune pensioni. L’Europa deve porsi il tema di come coniugare le rilevanti decisioni politiche, assunte in modo indipendente dalla Bce e dall’Eba, con quelle che prendono la Commissione europea e i Governi nazionali. Abbiamo lasciato a organismi indipendenti e che rispondono solo a sé stessi, la possibilità di incidere sulla vita dei cittadini e sull’economia, in modo superiore alla Commissione europea e soprattutto ai Governi nazionali. È legittimo chiedersi quanto sia giusto?”.
I cosiddetti Paesi virtuosi in realtà sono tra i peggio indebitati. Se, infatti, il Bel Paese porta in dote un 41% di debito privato sul Pil, altrove le cose vanno diversamente: Paesi Bassi 102%; Danimarca 116%; Svizzera 130%; Norvegia 102%; Germania 53%; Regno Unito 87%; Svezia 89%; Usa 75%.
Come si può notare, Paesi considerati virtuosi detengono un debito privato oltre soglia del 100% del Pil e hanno cittadini indebitati per quasi ogni bene, eccetto che per gli immobili, spesso in affitto. Uno scenario che ricorda da vicino quello della crisi dei mutui Usa, che innescò il disastro economico del 2008, passata in Europa come problema “di debito pubblico”.
Nel 2011 gli italiani avevano lo stesso risparmio odierno e il debito pubblico era al 70% in mano italiana, il nostro Paese non ha mai fatto ricorso a prestiti e, anzi, ha sempre finanziato l’Ue. Tutto questo per sottolineare l’assoluta falsità della narrazione che ci voleva in default. Germania e Francia, tramite Bce e Fmi, tentarono di farci sottoscrivere accordi con banche (su modello greco…), ma la forte opposizione al Governo di Mario Monti da parte dell’opinione pubblica bloccò l’operazione.
L’Italia sarà il Paese dell’Eurozona più esposto a una crisi del debito quando, nei prossimi mesi, la Banca centrale europea aumenterà i tassi d’interesse e acquisterà meno obbligazioni: parliamo di un sondaggio (avete letto bene, un semplice sondaggio) del Financial Times (che ha sbagliato previsioni e stime dal 2008), secondo cui 9 dei 10 economisti interpellati ritengono che il nostro Paese, all’interno appunto dell’eurozona, sia quello “più a rischio di un sell-off non correlato nei suoi mercati dei titoli di stato”. Un sondaggio che influenza i mercati e che i giornali di settore italiani veicolano come una piccola Bibbia.
Questo subisce il nostro Paese dal 1992: sarebbe ora d’invertire la rotta, uscendo dal concetto neoliberista anti-debito utile alla crescita.
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