Dopo il suicidio di Luigi Tenco, Gino Paoli si era in pratica ritirato. I fasti degli esordi, da “Senza fine” a “La gatta”, da “Sassi” a “Il cielo in una stanza”, sino a “Che cosa c’è” e “Sapore di sale” si erano concentrati fra il 1961, anno del suo primo Long playing, e il ‘65 della sua (presunta) consacrazione col live “Gino Paoli allo Studio A”. Dopo, però, nel ’66 Paoli aveva firmato appena una colonna sonora, e nel ’67, anno della morte dell’amico, solo il lato A di un bizzarro disco diviso con The Casuals. E del resto Paoli avrebbe potuto morire prima di Tenco, quando decise di spararsi un colpo al cuore “per vedere cosa succedeva” nel luglio ’63, all’apice del successo; e non fu certo un caso che la tragedia del collega, sorta di ultima goccia in un vaso traboccante di malesseri, sia andata in pratica a chiudere per lui un periodo fortunato quanto contrastato, portandolo proprio a decidere di smettere.
Il perché e il come, in verità, Paoli l’ha dichiarato con più precisione al suo miglior biografo, Cesare G. Romana, lasciando solo in controluce la vicenda Tenco. “Un giorno mi trovai di fronte a un foglio di carta bianco, e mi sorpresi a domandarmi cosa potesse funzionare in quel momento. Ecco, lì capii che era il segno di smettere di scrivere. Mio padre mi diceva sempre: ‘Se non hai niente da dire, taci’. Così mi misi a fare il cantante da night girando con un’orchestra e interpretando pezzi di altri”.
Il ritiro di Paoli durò, discograficamente parlando, quasi cinque anni. L’artista gestì un dancing a Levanto, rimettendoci peraltro milioni di allora perché offriva da bere a tutti, e appunto cantò nei night: “Dove imparai il mestiere, facendo davvero la gavetta”. I denari a Gino non mancavano, comunque: grazie ai proventi editoriali dei suoi successi e alla piccola etichetta Without End (ovvero “Senza fine”…) con cui l’artista ebbe l’intuizione di divenire primo editore italiano dei Bee Gees. Ma ci fu anche altro, in quel periodo di assenza dalle scene che contavano: qualcosa che Paoli alla fine scansò come non era riuscito a fare Tenco e come non sarebbe riuscito a fare l’altro suo amico Piero Ciampi (che non citiamo a caso); qualcosa che avrebbe paradossalmente dato il “la” al vero Gino Paoli.
“Furono tre anni di incubo”, ha ricordato infatti Paoli, approfondendo il periodo post-1967 passato fra la cosiddetta gavetta e il fare un po’ l’oste un po’ il discografico, incidendo qua e là solitari 45 giri mentre Sanremo lo rifiutava come aveva sbeffeggiato Tenco. “In quegli anni sperimentai il limite. Finché mi spinsi sempre più giù, sino all’eroina. E solo nel 1971, quando un ricovero all’ospedale mi impedì di procurarmi la ‘roba’, e capii che per tre anni non ero esistito, solo allora decisi di ricominciare a vivere. Costringendo un amico a tenermi sotto controllo finché non uscii dal tunnel della dipendenza. Soltanto dopo ciò, lasciai Levanto, tornai a Milano, mi rimisi su dischi veri. Quel periodo, con la droga, è stato un altro tentativo di suicidio, per me”.
E’ dunque una rinascita a tutti gli effetti, umana in primis, quella che riporta Gino Paoli sulla ribalta discografica nel 1971 con l’album “Le due facce dell’amore”, a inaugurarne un periodo fertile, anche migliore dei fasti anni ’60 per qualità complessiva degli album, quanto purtroppo oggi dimenticato. Il periodo paoliano apertosi con “Le due facce dell’amore” lo vede agire sotto l’egida dell’etichetta meneghina Durium, nata nel 1935, capace di stampare anche la celebre antologia “Napoletana” di Murolo e la “Milanese” di Svampa e poi defunta nell’87 paradossalmente mentre immetteva sul mercato l’ennesimo album magnifico, “Serenata” di Amedeo Minghi, che avrebbe dovuto confermarne la capacità di valorizzare i talenti e invece fu il canto del cigno.
In realtà anche dopo i fasti artistici (non certo di vendite) dei dischi con la Durium, l’ultimo uscì nel ‘77, ci sarebbero stati per Paoli anni di silenzio e nascondimento: interrotti appena da un celebre e magnifico omaggio a un altro amico, appunto Ciampi, con l’album dell’80 “Ha tutte le carte in regola”, prima della rentrèe magistrale e definitiva di “Averti addosso” nell’84. Perché Paoli è rimasto personaggio ombroso quanto sensibile, ben poco facile da piegare alle regole del mercato, e sempre ha scritto solo quando aveva qualcosa da dire. Certo, con l’Lp del 1971 era tornato ad averne, di cose da dire: e con esso si aprì per lui un momento di grazia. Fu lo stesso Paoli a presentare il proprio ritorno sul retro dell’album “Le due facce dell’amore”, stampandovi una lettera destinata all’arrangiatore del disco Giampiero Boneschi, uno dei grandissimi della discografia nostrana.
La lettera, datata 13 giugno 1971, spiegava un lavoro nel quale il lato A parlava di “cose d’amore ancora felici”, e il lato B dei travagli del sentimento. Ed era un Paoli rinato dunque in tutti i sensi, quello che si porgeva all’ascolto. Era tornato a scrivere capolavori che resteranno, da “Come si fa” a “Se Dio ti dà”, già usciti in sordina su singolo ma ora finalmente valorizzati, volava alto nella poesia di “Di vero in fondo” e nella dolcezza di “Mamma mia”, dava già spazio a Ciampi (“Hai lasciato a casa il tuo sorriso”, “Fino all’ultimo minuto”, “Non chiedermi più”) come all’altro amico di sempre Umberto Bindi, che all’epoca iniziò a venire emarginato dalla televisione e non solo in quanto omosessuale (e di cui Paoli incise “L’amore è come un bimbo”). Nell’Lp della rinascita sfilavano persino un pezzo del comico Pippo Franco (“Con chi fai l’amore Mimì”) e si vedeva anche riemergere il Paoli interprete-riscrittore d’alto bordo: come negli anni precedenti aveva tradotto alla grande Jacques Brel, ora rendeva nota in Italia “Les amants d’un jour”, dolente storia d’amor tragico scritta per Edith Piaf, messa in italiano (“Albergo a ore”) dal grande Herbert Pagani e dall’incisione paoliana divenuta un must della nostra canzone d’autore, fra riprese di Paoli stesso e versioni di Mina, Vanoni, Marcella.
Anche “Come si fa” del resto sarebbe diventata un classico, mentre Patty Pravo ridarà peso a “Di vero in fondo” e Drupi renderà “Se Dio ti dà” brano da hit parade incidendolo come sigla di una telenovela. Paoli era dunque come rinato, insomma, nel 1971. Anche il Paoli caustico e provocatorio, o quantomeno prosaico senza paura di scontrarsi con gli spigoli del quotidiano, tornava ad affacciarsi in “Un po’ di pena”: ad anticipare un percorso che l’artista definirà un “guardarsi prima dentro, poi attorno”, e che lo porterà a un’infilata di album eccellenti. Per la Durium, infatti, dopo l’“album bianco” di Paoli, perché “Le due facce dell’amore” esce con cover candida e solo titolo e autore su di essa, toccherà alla ripresa del passato dell’“album nero” “Rileggendo vecchie lettere d’amore”, in realtà coevo del precedente, con l’organo inciso in una chiesa vuota per “Il cielo in una stanza”; e poi, nel ’72, ecco l’Lp “rosso” “Amare per vivere”, che guardava al sociale, raccontava la vita vissuta fuori dallo show business in “Bozzoliana”, riprendeva Leo Ferré (“Col tempo”) e Georges Brassens (“Marcia nuziale” nella traduzione di De André), anticipava la poesia di Serrat messa in musica con “Ballata d’autunno”.
Poi proprio al poeta-cantautore catalano sarà dedicato il memorabile “I semafori rossi non sono Dio” del 1974, fra “Il manichino” e “Ma andate a…”, seguito da un passaggio per Genova in un disco per nulla convenzionale o folclorico (“Ciao, salutime un po’ Zena”, 1975) sino a chiudere l’apoteosi della rinascita paoliana con “Il mio mestiere”, disco doppio del 1977 lanciato dalla magnifica “67 parole d’amore” e contenente la dichiarazione d’intenti più precisa del canzoniere di Paoli, appunto la title-track. Che forse spiega tutto, almeno a posteriori: dalla crisi al ritiro, la rinascita, il ritrovare senso al far canzoni. “Se il tuo destino è quello di parlare / come si fa a fare il mio mestiere / Nei posti in alto, quelli dei poeti / ci sono già i capi, i belli, i preti / che parlan della vita con sussiego / come se non ci fosse già la vita… / Allora è meglio scrivere da solo / senza nemmeno più farsi sentire / come un bisogno tutto personale / un fatto intimo, fondamentale / che non dimostra niente più a nessuno / ma che ti fa sentire ancora vivo”. E per Gino Paoli “Il mio mestiere”, cui egli arriva risalendo dal basso a partire da “Le due facce dell’amore”, è ancora oggi la canzone chiave: per dirsi, per capire la sua arte.
Ed a chi scrive l’ha raccontato come segue: “Io sono un lupo solitario, parlo nelle canzoni per dare stimoli a pensare e perché nella vita non so andare incontro agli altri, nelle canzoni appago questo bisogno. Ecco, il mio mestiere è questo: anche fare politica, sì, perché la vera politica la si fa tutti con il proprio mestiere. E io ne so qualcosa, essendo stato in parlamento, di come non si fa politica… Se l’artista invece è onesto, aggiunge a quanto tutti vedono una prospettiva in più. Poi essere capiti, beh, è difficile. In un mondo che accetta pacchetti di pensiero evidenziare mancanze e domande è dura. Ed anche l’etica dell’agire per potersi guardare allo specchio, che è la mia etica nello scrivere, è dura da far passare. Però, vede, se io sono Gino Paoli oggi è perché scrivo così. E scrivo così perché sono passato dall’inferno. Comprendendo molte cose e dunque non ricascandoci più: condannare e basta, invece, implica il poter ripetere l’errore. Mi chiede quando sono ripartito davvero, con queste consapevolezze? Mi chiede delle cose… Un momento decisivo fu quando morì mio padre e capii che dovevo prendermi delle responsabilità sul serio. Però ho visto anche mio fratello ucciso dal bere, e da bambino ho visto la guerra. Per tutto questo mi batto, nelle canzoni, per un mondo migliore”.
Nel periodo Durium Paoli tornò sul serio a fare l’artista anche capendo che c’era, chi lo avrebbe ascoltato: accadde a uno storico concerto al Pincio di Roma nel ’75, alla festa dei giovani comunisti. Aprì la serata un imberbe Angelo Branduardi, poi un Paoli considerato (e che si considerava) quasi “finito” cantò due ore e mezza davanti a ventimila persone. E da allora non smise più. “Le due facce dell’amore” avevano fatto ripartire la sua poesia, e pur con qualche pausa di rispetto per il pubblico (seguendo quanto gli diceva il padre, no? “Se non hai niente da dire, taci”) Gino Paoli sarebbe andato avanti a far canzoni. Sino a cantare contro il razzismo o la guerra, anche oltre l’amore, dunque: che comunque cantare l’amore è cantare l’uomo, la donna, la vita, il rapporto con l’altro. Specie se fatto al livello cui lo fa Paoli.
Certo, però, siamo in Italia: e vi abbiamo parlato di un disco storico e un periodo artistico decisivo di cui non esistono più tracce. Perché? Perché – se ci credete, ma ce l’hanno detto loro… – i discografici che hanno ereditato il catalogo Durium hanno perso i contratti originali, dunque non vogliono imbarcarsi nell’impresa di rieditare quegli album degli anni Settanta. Voi comunque cercateli nei mercatini, i dischi di Gino Paoli da “Le due facce dell’amore” in poi. Lui, se gliene parlate, riderà. E vi ripeterà: “Non li vedrò mai ristampati. Pedrinelli, manca cultura: la cultura è investire a lunga scadenza, l’industria ha bisogno di vendere oggi. La cultura crea individui, l’industria vuole la massa. E stampa altro”.
Ma se li troverete, quei dischi, e li ascolterete, capirete cos’è il cantar d’amore, cos’è la canzone d’autore italiana, cos’è una cosiddetta “cover” se fatta sul serio (e che Paoli, Brel, Serrat eccetera ci perdonino il termine “cover”). Soprattutto capirete perché e come Gino Paoli, pur avendoci provato in più modi a distruggersi e ritirarsi, non solo non sia mai “finito”, ma anzi sia ancora, grazie al cielo, Gino Paoli. Un artista che sa scrivere canzoni di peso e senso, che già che ci sono emozionano pure, e che a dispetto degli eredi della Durium restano e resteranno. A cantarci la doppia faccia dell’amore e le mille facce della vita dell’uomo, a firma, e che bella firma, Paoli Gino.
Le due facce dell’amore (Durium, 1971)
Come si fa / Mamma mia / L’amore è come un bimbo / Hai lasciato a casa il tuo sorriso / Se Dio ti dà / Di vero in fondo / Fino all’ultimo minuto / Non chiedermi più / Un po’ di pena / Con chi fai l’amore Mimì / Il tuo viso di sole / Albergo a ore