Dopo l’esito molto dubbio di Tre piani, l’unico suo film tratto da un’opera altrui, Nanni Moretti decide di tornare a raccontare ciò che fa meglio, ovvero se stesso, il proprio e la connessione con ciò che lo circonda, e di farlo nel modo che forse a lui risulta più congeniale, ovvero l’umorismo (seppure La messa è finita e La stanza del figlio sono considerati i suoi capolavori). Il sol dell’avvenire, il nuovo film del regista romano, è un modo per far sentire di nuovo a casa i suoi spettatori e per riflettere sul cinema, proprio e altrui, dall’ottica di un uomo che si avvia alla vecchiaia pur non volendovi cedere.
Il protagonista è Giovanni, quindi lo stesso Moretti, impegnato a girare un film su un circo ungherese che nel ’56 arriva nella periferia romana, all’alba dell’invasione sovietica di Budapest; mentre fatica a concludere il lavoro e ne progetta altri (tra cui un sogno per ogni suo fan: un film d’amore costellato di canzoni), la vita intorno a lui prosegue e la compagna di una vita, Paola (Margherita Buy), decide di lasciarlo.
Moretti scrive insieme a Francesca Marciano, Federica Pontremoli e Valia Santella una commedia semi-biografica, imbevuta di meta-cinema, di aperture surreali e oniriche e di cadenze di tenue dramma tra seconda e terza età che, pur non essendo affatto la prima volta in cui Moretti parla di sé e del suo lavoro (Caro Diario, Aprile, Il caimano), sembra la riflessione definitiva su di sé, sul suo lavoro, sul suo modo di guardare il mondo.
Messa così, anche in virtù di quel finale in cui una manifestazione popolare diventa una sfilata di volti e personaggi che hanno popolato il suo cinema, il primo riferimento che viene in mente è Fellini e il suo 8½, e non si può negare che tra il circo, le citazioni ad altri suoi film (il circo Budavari come il pallanuotista da marcare in Palombella rossa) e la musica di Franco Piersanti che al momento giusto orecchia Nino Rota, il capolavoro felliniano viene alla mente; ma forse, con tutte le dovute differenze e la consapevolezza che un paragone del genere farebbe rabbrividire Moretti, Il sol dell’avvenire è una versione romanzesca di “Cinema Speculation”, il saggio in cui Quentin Tarantino ragiona sulle sue ossessioni cinefile.
Perché se nei precedenti film era chiarissimo il cinema che Moretti odia, in modo del tutto personale e quindi molto discutibile (anche perché Harry pioggia di sangue, Heat e Strange Days sono grandi film), qui invece si parte dal cinema che ama, che vuole riguardare e vorrebbe rifare, partendo da Lola di Demy che rivede prima dell’inizio delle riprese di ogni film – e che funge da ispirazione nel modo di usare le canzoni – per arrivare ai Taviani fino a Scorsese, chiamato in causa durante una memorabile interruzione delle riprese di un film Pulp, genere che di solito odia, con delle eccezioni: durante le interviste promozionali ha dichiarato di aver apprezzato Bastardi senza gloria. Ecco allora da dove arriva lo spunto del finale, in cui straccia la sceneggiatura che aveva seguito religiosamente poco fa, e inventa un finale ucronico in cui una sede del Pci di Quarticciolo fa partire un movimento di pensiero che conduce il partito a dissociarsi dall’Urss e a segnare la via italiana di un gioioso socialismo che dura – nell’invenzione filmica – fino a oggi.
Rispetto poi alle ultime due prove, che chi scrive trovava sottotono dal punto di vista dello stile registico e del lavoro con gli attori, Il sol dell’avvenire amalgama la ricercata frammentarietà del racconto con l’armonia delle immagini (fotografia di Michele D’Attanasio, montaggio di Clelio Benevento), il lavoro quasi chimico con gli attori, la precisione dei tempi comici che regalano nuove icone e irresistibili idiosincrasie. E questo mix di elementi eterogenei che sono poi il cuore stesso del cinema di Moretti è fuso a un livello tale da commuovere ripetutamente, perché in quelle boutade (i sabot, il copertone all’uncinetto, le canzoni a squarciagola) sentiamo l’anima di un regista, nel suo narcisismo, nell’ambiguità con cui si mette in discussione sentiamo un pezzo di noi, un pezzo che magari vorremmo rimuovere, ma a cui non possiamo che volere bene.
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