L’unico sol dell’avvenire dell’omonimo film di Moretti che si vede è un pallone di carta, giallo, ma non illumina. Il cinema che racconta il cinema, il regista che racconta sé stesso, è il metodo scelto per dire la fine di un’illusione, che, come tutte le illusioni, è amara, drammatica. E questo film è il più drammatico e antideologico che Moretti abbia firmato.



Ha scelto di mettere in scena come sempre le sue manie, le sue contraddizioni, le sue fragilità psicologiche, che nascono dalla contraddizione tra sogno e realtà. E se il sogno era un ideale radioso per l’umanità, e una casa politica in cui sentirsi sicuri, protetti, accompagnati ad affrontare la vita, la storia ha insegnato, e duramente, che era illusione, che lascia delusi e amareggiati. Una parte d’Italia del dopoguerra credeva di trovare nel comunismo ideale la risposta ai suoi bisogni di dignità, lavoro, uguaglianza.



Il caporedattore dell’Unità ha il volto mesto e malinconico di Silvio Orlando, che anima un quartiere disagiato cercando adepti da tesserare al partito, e offrendo lo svago innocuo di un circo ungherese per sollevare gli animi e spargere un po’ di felicità. Peccato che lo spettacolo sia interrotto dalle immagini dei carri armati sovietici che stroncano nel sangue e con una feroce repressione la rivolta di Budapest. E mentre la gente, quella semplice, quella vera, tentenna, desolata e confusa, ma poi sceglie, e sceglie la giustizia, la verità, la democrazia, il giornale di partito si piega ai diktat dell’apparato, e si inchina a quell’Unione Sovietica che non poteva non aver ragione, perché “noi siamo comunisti, e i comunisti stanno con l’Unione Sovietica”.



Ingurgitare il boccone amaro non era obbligatorio, e fa star male. Tutta la vita del famoso regista è la presa di coscienza che quel giorno, e i giorni analoghi a seguire, dovevano avere un’altra risposta da quell’eresia italiana del comunismo che regalava tante speranze. Un’altra risposta per scacciare il senso di colpa, per non vedere le ipocrisie, non riconoscere la violenza del potere, sotto le menzogne della propaganda. Un’altra risposta per non vedere la propria vita spezzata, incapace di cercare la felicità nelle piccole cose, nelle grandi cose che le danno colore: l’amore, un bacio rubato, il sorriso di due giovani che danzano in un prato verde coi propri bambini.

Tutto il film è pervaso da una cupezza coraggiosa, che ha solo una fine possibile. La morte del bene, la fine tragica del film, col suicidio del protagonista, schiacciato dall’impossibile cieca obbedienza al giornale, al partito. Oppure, decide il Regista, si può almeno nel cinema cambiare la Storia. Immaginare una rivolta morale e civile di popolo, e i notabili di partito che si inchinano al suo volere, e scelgono di liberarsi dalla soggezione all’Urss, di stare dalla parte degli ungheresi, e poi dei cechi, e poi… e poi.

Come sarebbe stata diversa la vita. Come si potrebbe ancora credere agli ideali di quel manifesto che, come un fantasma, scuoteva le polverose potenze europee di metà 800. Come si potrebbe sfilare orgogliosi tutti insieme e affacciarsi sul presente, sul futuro, con una proposta politica credibile. Il finale felliniano con la processione di circensi e popolo ai Fori, sorridenti e cantanti e sventolando bandiere è un sogno non realizzato, non realizzabile. Ma è anche un memento coraggioso, appunto, e di rara libertà mentale, a una giovane sinistra che i conti col passato non li ha mai fatti, perché non vuol conoscere, perché è scomodo e faticoso. Si ride, ci si commuove, le autocitazioni sono infinite e vanno comprese.

Perché è tutta la vita che Moretti parla di una sinistra cui avrebbe voluto appartenere, e ci ha provato, sempre deluso e come sfinito dal peso di una storia non condivisa, non condivisibile. Ma è forte il desiderio di afferrare la vita, di intenerirsi, di cantare a squarciagola le canzoni d’amore, di essere quel che sei, quel che senti, fuori dagli schemi dell’ideologia.

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