Il capitalismo è un fenomeno storicamente e concettualmente difficile da spiegare. Sono, infatti, molti gli storici che nel corso degli ultimi due secoli hanno dibattuto sulla sua origine e sulle sue caratteristiche fondamentali. Inoltre, in un’epoca come quella attuale, è esercizio quasi doveroso rimettere in discussione sistemi politici ed economici vigenti. Per affrontare un’analisi completa dei meccanismi odierni occorre però mantenere uno sguardo attento alla natura dell’uomo per elaborare una chiara riflessione antropologica. Se si saltasse questo primo step, le analisi politiche e economiche rischierebbero di ridurre semplicisticamente la complessità delle persone e le dinamiche relazionali.
All’inizio di quest’estate un mio docente di Storia del Pensiero Politico mi ha proposto di elaborare la mia tesi di laurea triennale su un’opera di un pensatore politico in Italia poco sconosciuto, Hilaire Belloc. Appassionato pensatore politico diede alle stampe nel 1912, in Inghilterra, il saggio intitolato “Lo Stato Servile”.
Partendo dall’analisi del suo contesto socio-economico e politico, l’autore avanza ipotesi evolutive del sistema capitalistico, che in una fase primordiale, si fonda su una maggioranza di popolazione obbligata per legge a lavorare alle dipendenze di una minoranza che gode dei profitti accumulati nel processo produttivo. Il possesso dei mezzi produttivi delinea lo spartiacque tra le due classi. Chi li possiede predispone la realizzazione di prodotti da proporre al mercato, chi invece non li detiene deve necessariamente lavorare alle dipendenze della classe proprietaria per procurarsi lo stretto necessario per sopravvivere. Il pensatore anglo-francese profila, pertanto, una diffusa condizione “servile” che annulla le libertà fondamentali dell’uomo. Progressivamente viene sottratta al lavoratore la possibilità di contrattazione economica e viene mortificata la democratica manifestazione di idee. Belloc rimarca diversi aspetti interessanti nella concezione servile attuale e delinea un parallelismo storico con quello dell’antichità. Oggi qualcosa è cambiato sicuramente, ma occorre interrogarsi ancora sulla condizione socio-economica dell’ uomo. La questione antropologica è il fil rouge dell’opera.
L’autore inglese non elabora mai dogmi rigidi, ma osserva e giudica nel suo dinamismo lo stare dell’ uomo al mondo.
«La vita dell’uomo, come quella di ogni altro organismo, – scrive – dipende dalla sua capacità di modellare l’ambiente a proprio vantaggio, rendendone le caratteristiche il più possibile asservite ai suoi bisogni». L’ambiente che circonda l’uomo, inteso anche come sistema economico e politico, deve servire il suo agire e non limitarlo; ognuno dovrebbe essere nella condizione di soddisfare i propri bisogni e realizzare con pienezza la propria persona . Nel capitalismo questa realizzazione non è garantita. Ma dunque com’è possibile che l’uomo sia arrivato ad accettare un sistema che limiti tutta la sua natura inarginabile? Perché?
L’autore risponde a questa domanda indicando due aspetti: uno causale e uno conseguenziale. La causa risiede nella rinuncia all’autocoscienza e nello smarrimento della consapevolezza. Un individuo assoggettato all’egemonia culturale di inizio Novecento, aveva infatti smarrito una chiara e amorosa percezione della propria natura, così da accontentarsi di vivere in una società riduttiva, presentata come ugualmente appagante.
La conseguenza sta nella proposta che il capitalismo offre alla maggioranza proletaria. La sicurezza nel mondo del lavoro come rimedio alle crisi post-guerra e la democrazia come valida alternativa all’accentramento di potere riuscirono a consolidare nelle coscienze del tempo un ampia fiducia verso la proposta capitalista. Si sognava la libertà perdendola.
Questo sistema però da solo non riuscì mai a diffondersi in pianta stabile in territori ampi. Fu necessario l’allineamento con una dottrina che ne smussasse gli angoli e proponesse diversi compromessi adeguati alle richieste dell’intera popolazione. Questa dottrina congeniale è il socialismo. Gli idealisti socialisti o collettivisti di inizio Novecento ben consapevoli del carattere utopistico della propria dottrina, decisero di spendere le proprie energie per la questione operaia. Essi però nella loro “lotta” non svilupparono un concetto antropologico simile a quello di Belloc. Il loro impegno si tradusse in battaglie aventi come orizzonte il miglioramento delle condizioni proletarie in materia di sicurezza e benessere. Esigenze come la libertà, la giustizia e l’uguaglianza non divennero mai vessilli di battaglia. Tutto ciò comporta la legittimazione di un sistema per natura instabile e allo stesso tempo delimita un terreno fertile su cui costumi, principi e nuove idee potranno attecchire, avendo sempre come intento la stabilizzazione del sistema capitalista.
Questo scenario previsto da Belloc viene nominato “Stato servile” e definito come un ordinamento in cui «la maggioranza degli uomini sarà obbligata per legge a lavorare per il profitto di una minoranza, pur godendo, in cambio di tale obbligo, di una sicurezza di cui il vecchio capitalismo non li forniva».
Belloc, profondo conoscitore della Storia (si laureò in questa disciplina presso il Balliol College di Oxford), richiamò l’attenzione dei lettori al recupero della concezione cattolica antropocentrica. Egli rintracciò nel sistema politico-economico medievale che sperimentò il distributismo, inteso come sistema che garantisce e regolamenta la distribuzione di proprietà e mezzi produttivi, un recupero della centralità dell’ agire umano. L’homo oeconomicus delineato più tardi dai pensatori classici annullava quella visione.
Occorre riflettere profondamente sulle teorie di Belloc come occorre valutare le interpretazioni del filologo inglese, Gilbert K. Chesterton perché in esse si ritrova quel bisogno vigile di interrogarsi per non smarrirsi, utile all’uomo, ieri come oggi.
(Francesco Davide Zaza)