Rating maledetto rating. In questi ultimi anni insieme a inglesismi come spread e spending review o parole tabù come recessione, crisi e mancati incassi c’e una parola che più di tutte rappresenta l’incubo mio e di tutti gli imprenditori, soprattutto quelli medio piccoli, il “rating”.

Il rating è quello strumento di valutazione usato dalle banche per saggiare l’affidabilità di un’azienda, e fin qui nulla di strano, salvo la presunzione, e qui viene il problema, di ridurre la stessa ad un numero. Le banche valutano un’azienda dai suoi bilanci, ma noi siamo molto di più di un bilancio!
Credo si tratti di una delle peggiori decisioni mai prese in campo finanziario e con ripercussioni dirette nell’economia reale. Mi ricordo quando con il direttore di banca eravamo veramente alleati, ci conoscevamo, ci rispettavamo e non avevano bisogno di vedere i bilanci per valutare l’azienda e la sua capacità di assolvere gli impegni. Dopo questa maledetta rivoluzione del sistema del credito (grazie a McKinsey, Basilea 2 e tutti quei tecnici chiusi in grandi palazzi di vetro senza contatto con la realtà di tutti i giorni) i rapporti, e quindi l’umanità, sono stati identificati addirittura come un male.
Si partiva dal pregiudizio che due persone che si conoscono lavorano peggio di due senza rapporti e guidati nelle loro decisioni solamente da numeri e dal computer che decide per loro; non è assurdo?
Il vero valore sta nell’incontro e lo stabilire se un’azienda è efficiente o meno non deve essere un fatto dimensionale desumibile dai soli dati di bilancio; deve prevalere, invece, la persona, la sua umanità, i suoi progetti ed i suoi sogni.
Quante volte, del resto, io stesso ho detto “fa schifo” analizzando qualche bilancio mentre, successivamente, le spiegazioni fornitemi o anche solo la descrizione dell’attività aziendale mi hanno costretto a cambiare giudizio? Il valore è nell’incontro ma questo incontro non potrà mai avvenire fino a quando il moderno direttore, non per colpa sua ma per regole standardizzate, astratte e adatte ad altre realtà economiche, non avrà la possibilità di contare più dei sistemi da cui lui stesso dipende. 



Questa crisi è qui a dimostrare che i progetti politici e finanziari sui quali si era investito si sono dimostrati inadeguati a risolvere le questioni per i quali erano stati formulati, anzi le hanno peggiorate.
Il problema di fondo di ogni progetto è quindi il soggetto che l’ha creato e la sua disponibilità a confrontarsi continuamente con la realtà e verificare con responsabilità se quello che ha fatto è ancora adeguato o no; ovviamente, a costoro, l’idea di avere sbagliato non li sfiora neppure per un attimo.
Perché allora, mi chiedo, le nostre banche non tornano ad essere “semplicemente utili” invece di pensare solo a “fare utili”? Perché non si capisce che Basilea2 è stata un fallimento e che al posto di stabilire un rating basterebbe avere più competenze sul reale lavoro dell’impresa?
Ma noi piccoli e medi imprenditori che rappresentiamo il 99% delle imprese italiane, e che siamo sì un’anomalia, ma virtuosa, sappiamo che lamentarsi non serve perché ogni mattina quando ci svegliamo, qualunque sia la difficoltà, ci rimboccheremo le maniche per aprire l’azienda, dare lavoro ai dipendenti e cercare di offrire un prodotto migliore ai nostri clienti, alla faccia del rating e di tutti i tecnici che credono che basti imporre regole e misurazioni per far si che nessuno abbia più bisogno di essere buono senza invece capire che «l’Uomo che è farà sempre ombra all’uomo che si pretende di fare».



(Andrea Rosestolato)

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