L’Italia nel 2016 si conferma la settima potenza industriale nel mondo, la seconda in Europa alle spalle della Germania. Lo fa sapere il Centro Studi di Confindustria, che segnala tuttavia come il Pil del nostro Paese tornerà ai livelli pre-crisi solamente nel 2021. «Anch’io – ci dice Francesco Daveri, Professore di Macroeconomia all’Università Bocconi – avevo fatto questi calcoli semplicemente proiettando in avanti una sequenza di crescite trimestrali dello 0,3% circa, che è stata la media della ripresa che abbiamo visto finora. C’è da dire che il 2007 non era il risultato di una crescita sostenibile».



Cosa intende dire Professore?

Di fatto il dato del 2007 era il punto di massimo di una fase ciclica ascendente che era durata un paio d’anni. Quindi bisognerebbe confrontarsi forse in modo più sensato con il dato del 2006. Nel caso potremmo completare il “recupero” intorno al 2020. Il che non è particolarmente consolante, però diciamo che la strada è un po’ meno lunga.



Il Centro Studi di Confindustria segnala una perdita di circa 800.000 posti di lavoro nel manifatturiero italiano dall’autunno 2007 all’inverno 2015: un calo del 17,1%…

La perdita di posti di lavoro nel manifatturiero è un trend di lungo periodo, non dipende cioè solamente dalla crisi. Certamente nell’arco temporale indicato, quando abbiamo perso il 25% della produzione industriale, c’è stata una distruzione di posti di lavoro enorme rispetto al trend di lungo periodo. Ora che è ritornata la crescita anche nel settore industriale non ci dobbiamo però aspettare che l’occupazione manifatturiera torni ad aumentare. 



Perché?

Perché il trend che si osserva in tutti i paesi avanzati, e che proseguirà, è la cancellazione di posti di lavoro manifatturieri. Spesso c’è un cambiamento nella qualità del tipo di posti di lavoro che riusciamo a creare. Si dice che gli operai scompaiono, ma quelli che rimangono sono ormai in grado di lavorare con le macchine, con i robot, quindi hanno magari anche stipendi ben più alti dell’operaio massa degli anni ’50-60. 

È prevedibile però che nascano nuovi impianti produttivi…

Sì, in questo senso mi aspetto che ci possa essere il reshoring, cioè il ritorno degli impianti produttivi dopo la delocalizzazione. Se la ripresa funziona lo misureremo dal fatto che torneranno a esserci reinsediamenti di impianti industriali. I quali però non genereranno lo stesso numero di posti di lavoro del passato. Potranno semmai creare un indotto fatto di opportunità imprenditoriali più piccole che offrono servizi o componenti, rappresentando anche un po’ un modo per le grandi imprese di ridurre i propri costi interni.

Tra le criticità per la ripresa dell’industria italiana, il Csc indica il Costo del lavoro per unità di prodotto (Clup), che dal 2007 al 2016 è aumentato del 15,2%. Si potranno vedere miglioramenti su questo fronte?

Il Clup è funzione del salario e della produttività. Finora quest’ultima è stata l’anello mancante, però una qualche ripresa c’è. Il problema è che la produttività in Italia aumenta un po’ meno che altrove perché abbiamo tante piccole imprese – che sono il nerbo del settore industriale e dell’economia italiana – che strutturalmente hanno una produttività per addetto più bassa rispetto alle aziende più grandi. Quindi se un Paese basa molta parte della sua crescita sulle piccole imprese è difficile riuscire ad avere grandi guadagni di produttività.

Si può invertire la rotta?

Le piccole imprese dovranno crescere e negli ultimi anni sono state messe in campo misure come l’Aiuto alla crescita economica (Ace), che è una forma di tassazione favorevole per le aziende che reinvestono una parte degli utili nella crescita interna. Negli scorsi anni di crisi, mancando gli utili, non si vedevano benefici da questa misura. Ora le cose potrebbero cambiare, l’Ace si sentirà di più, le piccole imprese potranno diventare più grandi e quindi anche la produttività dovrebbe migliorare in modo “naturale”.

L’Italia resta la settima potenza industriale mondiale: dovremmo fare comunque qualcosa per crescere negli altri settori, come i servizi?

In realtà i servizi rappresentano già il 70% del Pil. Bisogna chiedersi come rendere questi servizi più efficienti. E qui si scontano forse un po’ di resistenze, la difesa dell’esistente, la legislazione che protegge le professioni anziché favorire il sorgere di nuove imprese. Questa è una cosa che dovrebbe essere pian piano smantellata per riuscire a cogliere appieno le opportunità che derivano dall’avere nuove tecnologie che consentono lo sviluppo di nuove attività. Se ci sono regole e legislazioni che frenano questo sviluppo, allora naturalmente restiamo un po’ indietro.

Dunque ci vorranno interventi legislativi su questo fronte…

Sicuramente aiuterà la legislazione europea che verrà pian piano adottata. C’è infatti un orientamento in Europa favorevole allo sviluppo di nuove attività, che sono quelle in cui probabilmente i giovani possono più facilmente collocarsi, magari mettendo in piedi loro stessi delle aziende, dato che è diventato più difficile entrare in quelle grandi. Se c’è bisogno di meno occupati bisogna riuscire a dare uno sbocco sul mercato del lavoro, soprattutto nei nuovi servizi, alle persone che non sono impiegate nell’industria, nelle grandi aziende. 

(Lorenzo Torrisi)