MINNEAPOLIS – Hanno cominciato a parlarsi, continueranno a farlo e questa è già una buona notizia per due capi di Stato che non si parlavano dal novembre del ’22. Forse una buona notizia per tutto il mondo. Come ha dichiarato Biden proprio ieri, “There is no substitute for face-to-face discussions”, niente può rimpiazzare una discussione faccia a faccia. Speriamo che continuino a parlarsi.
Trapelano le prime notizie in merito al primo incontro. Anzitutto la concorde valutazione che è tempo di adottare misure per frenare la produzione di fentanyl, il potente narcotico che alimenta la crisi della droga negli Stati Uniti. La Cina avrebbe accettato di perseguire attivamente le aziende produttrici di precursori chimici del fentanyl. Perché è dalla Cina che arrivano queste sostanze.
In secondo luogo – punto cruciale – il ripristino delle comunicazioni militari. In altre parole, scambiarsi informazioni per tenere sott’occhio quel che succede nel mondo. L’alto funzionario americano fonte di queste primizie fa anche sapere che Biden ha incoraggiato con vigore Xi Jinping a “lavorare” sull’Iran per prevenire mosse che potrebbero avere gravissime conseguenze sulla già drammatica situazione mediorientale.
Queste le voci che circolano. E poi compare lui, il presidente degli Stati Uniti d’America. Alle 8:15 pm eastern time Biden si presenta in televisione dopo quattro ore (!) di colloquio con Xi e lo fa attraverso l’inconsueta modalità della news conference. Breve introduzione e poi via, domande e risposte. Tutto solo. Una formula molto rischiosa per un uomo in età avanzata che ha già palesato momenti di spaesamento. Quasi una sfida a se stesso davanti al mondo.
Insomma, la Cina è il contenuto, ma la campagna presidenziale è sullo sfondo. Parte spedito e lucido presentando quei primi risultati frutto di un confronto “costruttivo e produttivo”. “È quello che il mondo si aspetta da noi”, promette il Presidente, e “gestiremo la competizione con la Cina evitando la conflittualità”. Arrivano poi le domande. Taiwan, la fiducia in Xi …e Old Joe rallenta, perde un po’ il ritmo mentre corre con lo sguardo a dei foglietti che tiene in mano. Presto botta e risposta arriva alla crisi mediorientale e c’è confusione in sala, non solo nelle parole di Biden.
Ma questo è Joe Biden, lo sappiamo tutti. Oggi quel che ci si aspettava era la “riapertura” tra Cina ed America. Così comincia la prima visita del presidente della Repubblica Popolare Cinese in sei anni, eppure, forse per scaramanzia diplomatica, nessuno dei personaggi di spicco dei due entourages sembra aspettarsi risultati spettacolari da questa quattro giorni californiana. Lo documentano come riflesso i giornali ed i notiziari di mercoledì mattina: bisogna scorrere a fondo pagina per trovare qualcosa in merito a questo summit. Eppure la posta in gioco tra i due è enorme. Forse proprio per questo nessuno sembra intenzionato a giocare pesante per paura di spezzare un equilibrio molto fragile e farsi ancora più male.
Non sono più tempi di “Panda diplomacy”, sono tempi duri per tutti. Xi Jinping si porta dietro un colosso di paese in serio odore di crisi economica ed in grave affanno con l’occupazione giovanile. Biden ha i suoi problemi di leadership interna ed a livello internazionale due guerre tra le mani. Inoltre Old Joe di fatto già si ritrova in mezzo ad una campagna elettorale (e la news conference ne è la riprova) che – per il momento – lo vede arrancare alle spalle di Trump. Già, Trump e la sua guerra dichiarata alla Cina. Dal totale appoggio a Taiwan, alle tariffe sull’importazione, fino al Coronavirus…
Biden, che in verità non ha spostato di una virgola la posizione americana rispetto a questi temi (a parte la questione del virus), vorrebbe ricucire “restoring channels of communication”, restaurando i canali di comunicazione sia civile che militare, riaprendo la via ad una produttiva – se non esattamente amichevole – collaborazione tra la democrazia americana e l’autocrazia cinese. Possibile? L’americano di oggi guarda alla Cina un po’ come l’americano di ieri guardava alla Russia. Fondamentalmente ci vede “il nemico”. Solo che con la Russia non si faceva del gran business, con la Cina sì. Tutto il business, direttamente o indirettamente, ha a che fare con la Cina ed i cinesi. Non ci si aspetta che costoro ci lancino contro un missile atomico, ma ci aspettiamo che ci rubino lavoro e ricchezza minando la nostra forza ed il nostro benessere. E per quanto tutti i politici si affannino ed accaniscano a dichiarare la loro opposizione alla ramificazione (o invasione) dell’economia cinese all’interno del nostro sistema (vedi l’animato scambio Haley-DeSantis di una settimana fa al dibattito tra candidati repubblicani), la supply chain resta saldamente in mani cinesi.
Ma il dialogo è iniziato e già solo a sentire la parola “concorde”, unito nel cuore, si apre, uno spiraglio alla speranza. Perché no?
God Bless America!
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