«Ave Maria, piena di grazia…». Queste sono le parole profferite, a fior di labbra, dal vecchio – ma non per questo confuso o indeciso – Walt Kowalski al termine dell’ultimo, preziosissimo gioiello cinematografico e umano («il mio più piccolo, importante, personale») regalatoci dal quasi ottantenne attore e regista Clint Eastwood (classe 1930), tornato sia dietro che davanti alla macchina da presa – non accadeva dai tempi del premio Oscar Million Dollar Baby (2004) – per raccontarci una storia di paternità, riconciliazione, sacrificio e redenzione ad un livello tale da far parlare di film-testamento. Si tratta di una pellicola che personalmente ci piace accostare per autenticità di racconto e di emozioni a Into the Wild – Nelle terre selvagge (Into the Wild, 2007, Sean Penn), un’opera che lo scorso anno ci aveva tolto il fiato per qualità e quantità delle sollecitazioni proposte dall’ostinato e solitario peregrinare attraverso gli Stati Uniti dei primissimi anni Novanta di Christopher McCandless (Emile Hirsch), ventiduenne alla radicale ricerca della Felicità e della Libertà.
Due ore scarse di cinema, limpide come acque di montagna che fanno apparire quali pozzanghere la maggior parte di quanto viene propinato dal piccolo così come dal grande schermo, magari spacciato per “grande televisione” e “grande cinema” (si vedano alcuni dei premiati all’ultima edizione degli Academy Awards). Qui abbiamo un Gran Torino (2008) e un grandissimo Clint Eastwood. Fin dalle prime inquadrature ci si rende conto che quelle rughe scavate dagli anni emanano, trasudano la vita vita e non un’immagine o un’idea sulla vita, anche se l’iniziale apparire dei membri della famiglia Kowalski potrebbe invece farla apparire piuttosto stereotipata. Ma è un’impressione destinata a durare lo spazio di una scena perché davanti a noi c’è, prende spazio, si impone il racconto di un uomo, di uno che è “uno”, che colpisce, coinvolge, affascina perché dice “io” e “mio” quando parla di chi è e di quello che lo tiene in piedi, qualcosa che viene riassunto metaforicamente da una Ford del 1972 modello Gran Torino cui, per sua stessa ammissione, ha montato lo sterzo… .
A distanza di cinque anni dall’indimenticato «Forget about God or heaven and hell. If you do this thing, you’ll be lost. Somewhere so deep you’ll never find yourself again» che chiudeva, senza diritto di replica, il dialogo con il prete bersaglio preferito delle domande più “scomode”, certo colpisce ritrovare un uomo ancora ai ferri corti un giovane ministro della Chiesa cattolica, questo perlomeno più dinamico ed intraprendente, verso il quale egli stesso pare ultimamente ben disposto ma a cui non è però pronto a confessare il suo vero “male”, la “ferita” che ancora sanguina, il “peccato” che pare non perdonabile, a se stesso in primis, come se continuasse il tempo degli “unforgiven” (“colui, coloro cui non è stato perdonato”, il titolo originale del suo Gli spietati, 1992). Così come colpisce vedere arrivare comunque, di lì a poco, tale confessione, anche se davanti a tutt’altra grata: quella dello scantinato di casa dove ha rinchiuso per il proprio bene il suo unico erede (letteralmente, insieme alla Chiesa di cui sopra). Assistere poi nel finale di un film di Eastwood ad un certo evento che occorre al protagonista e a una certa serie di fotogrammi (un prato, un “crocifisso” a testa in giù, sangue che cola nel palmo di una mano…) è qualcosa di enorme, assolutamente colossale per chi ha stampate nella memoria di appassionato alle prime armi le sequenze e le amare battute finali di Un mondo perfetto (A Perfect World, 1993), quelle tra la giovane criminologa Sally Gerber (Laura Dern) e il ranger Red Garnett (Eastwood): «Tu sai di aver fatto tutto il possibile, non è vero?» «Io non so niente. Non lo so e non lo voglio sapere». Ben coscienti che ci si trova davanti all’ultimo punto di approdo, in ordine di tempo, di un autore – nel senso etimologico del termine – che si misura in modo serrato con se stesso in una personalissima evoluzione, in un progressivo raffinarsi di tematiche e prospettive, una “con-versione” privata/pubblica tutt’ora in divenire, che solo il tempo potrà confermarci se definitiva o meno.
Dalla citazione iconografica che non ti aspetti alla citazione biblica che ti lascia di stucco: «Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti». Il quinto versetto di Isaia 53 che apre La Passione di Cristo (The Passion of the Christ, 2003, Mel Gibson) fa capolino sulla bocca della spogliarellista Cassidy (Marisa Tomei), ispirata dal parallelo con le imprese “sportive” di Randy “The Ram” (“l’ariete”) Robinson (Mickey Rourke), il lottatore di wrestling che dà il nome al secondo film in questione (The Wrestler, 2008, Darren Aronofsky) e dietro il quale si cela ben più di uno spunto autobiografico dell’attore che lo interpreta, l’ex-divo hollywoodiano con un passato da sex symbol spazzato via dalla propria passione, per certi versi masochistica, per il pugilato professionistico («Il mio ultimo esame neurologico era terribile: il medico mi disse di ritirarmi. […] In effetti ho perso comunque la memoria a breve termine»). E Cassidy rincara pure la dose: «You look like Jesus», «Sembri Gesù». Quel Gesù dai capelli lunghi – come i propri – che Randy si porta tatuato sulla schiena e che torna anche in un’insegna in lingua spagnola («Jesuscristo es el Señor») che si intravede alle sue spalle mentre parla per strada, sempre con Cassidy, la matura lap dancer che frequenta di tanto in tanto da cliente ma per la quale sente qualcosa di più di una semplice attrazione fisica: un affetto che tenga nel tempo, diversamente dai suoi successi sul ring. In platea, dopo riferimenti tanto espliciti, è più che un’impressione quella di assistere ad una riproposizione in toni minori (e ci mancherebbe…) del sanguinoso scempio di un corpo, alla stregua del film di Gibson. L’idea di fondo ci pare ovviamente legittima ma certo non delle più innocue: la vicenda dell’«ariete sacrificale» (l’immagine è sempre di Cassidy), figura Christi che si offre per sua spontanea (e autodistruttiva) volontà al macello davanti alle urla della folla?
The Wrestler “è” Mickey Rourke così come lo scorso anno si poteva sentir dire (a discapito dell’opera) che Il petroliere (There Will Be Blood, 2007, Paul Thomas Anderson) “è” Daniel Day-Lewis. Non appaia una forzatura affermare che in una sola delle due opere menzionate ci pare essere almeno un’idea “originale”, poiché nell’altra si trova al più un attore che recita (coraggiosamente?) se stesso a favore della platea mondiale, «un vecchio pezzo di carne maciullata» che si sottopone a spettacoli di infimo ordine per una malcelata vocazione all’annientamento, all’odio di sé e della propria immagine (come pure dimostra l’episodio del bancone della spesa). Cosa resta da celebrare nella vita di un uomo che va a farsi ammazzare sul ring lasciando sul posto la donna che ama e lo ama, per di più dopo essersi già ritirato dalle scene? «Voi siete la mia famiglia!» urla Randy al pubblico che sta per assistere alla sua ultima (?) esibizione, scansando quella decisione che la stessa Cassidy ha invece saputo prendere davanti allo squallore del mondo e del lavoro fin lì accettati, subiti, presa come da un rigurgito del sé più vero e autentico.
Molti, tutti hanno decantato l’immagine conclusiva del film, quando la macchina da presa “abbandona” Randy che sta spiccando il salto dalle corde del ring nell’ultimo “Ram Jam” (non solo) dell’incontro mentre l’inquadratura resta per qualche istante fissa sulle luci della sala e una dissolvenza in nero precede i titoli di coda, sulle note e sulle parole della canzone The Wrestler scritta e cantata appositamente per Rourke dall’amico Bruce Springsteen («Then you’ve seen me, I always leave with less than I had before / Then you’ve seen me, bet I can make you smile when the blood, it hits the floor / Tell me, friend, can you ask for anything more? Tell me can you ask for anything more?»). Il buio del nulla, non certo della leggenda, in un finale che accostiamo idealmente a un celebre fotogramma fisso (con dissolvenza in un bianco accecante) di un’auto, per la precisione una Thunderbird ‘66 decappottabile, lanciata a tutta velocità per un “folle volo” sul Grand Canyon. A bordo due donne – una casalinga e una cameriera – spintesi al limite e strette mano nella mano, che hanno deciso di rompere con tutto, lasciandosi dietro ogni cosa. Anche se stesse. Tale ci appare anche il finale di The Wrestler.
La chiusura di un’opera ci sorprende nel silenzio: una vita ha cercato la sua fine, il suo fine, spesasi per rifiorire dentro ad un’altra che ne raccoglie la bella e preziosa eredità. La chiusura dell’altra pure ci sorprende nel silenzio: una vita ha cercato la sua fine, il suo fine (?), nel sangue e fra le urla, ma fatichiamo a vederci qualcosa di ultimamente ragionevole e corrispondente. Entrambe parlano però di uomini che hanno palesemente investito, ciascuno a modo suo, il proprio lavoro di serietà e verità. Chiedendoci di fare i conti a partire da quella modalità di incontro così particolare con l’intelligenza delle cose del mondo e l’esperienza della vita di altro da sé che è la visione di una pellicola cinematografica.
(Leonardo Locatelli)